Non sempre la letteratura ha come sbocco primario un romanzo o una raccolta poetica. Per fecondare il terreno che auspicabilmente la accoglierà, per incidere sulla realtà che spesso ha il compito ingrato di trasformare, è necessario che, di tanto in tanto, imbocchi via traverse. Che i suoi messaggi vengano traghettati indirettamente, se non addirittura, in una certa misura, mediati. Ad intestarsi questa missione, specialmente nel contesto di una cultura italiana mediamente refrattaria agli apporti forestieri, sono stati a più riprese giornali e riviste. Vale a dire quei canali ingiustamente ritenuti secondari, colpevolmente sottovalutati e vittime persino di un certo grado di pregiudizio per lo spazio dedicato, ad esempio, ai cosiddetti feuilleton, o romandi d’appendice. I quali, invece, hanno saputo costantemente anticipare tendenze e correnti. Imprimere nuova linfa, fare da centri propulsori di cambiamenti radicali, navigare in controtendenza sospinti semplicemente dalla forza incontenibile delle idee. È tra le loro colonne, tra un editoriale e l’altro, tra uno scambio acceso di battute e una felice corresponsione, che numerosi intellettuali si sono ritagliati delle vere e proprie isole felici per dialogare. Pensati quasi come dei salotti letterari a distanza – ma non di rado anche come occasione di incontro fisico – i giornali sono spesso stati la prima frontiera di una cultura globalizzata, il primo ponte tra mondi abituati a guardarsi in cagnesco, o quantomeno ad ignorarsi. Anche la Sicilia, naturalmente, ha fatto la sua parte in questo senso. Nello specifico, con un’iniziativa editoriale dalla vita piuttosto breve, ma non per questo meno intensa ed incisiva. Si tratta del palermitano Il Momento, fondato nel 1883 e attivo fino al 1885. La sua nascita fu merito di due figure brillanti ma inspiegabilmente eclissate dalla storia: i cugini Girolamo Ragusa Moleti e Giuseppe Pipitone Federico. Uno poeta, romanziere e fine critico letterario; l’altro insegnante di letteratura (nonché critico a sua volta) e fervente organizzatore culturale. Negli stessi anni in cui il Verismo affermava la propria predominanza letteraria, essi ne decantarono i pregi, facendo tuttavia un passo ulteriore: portare finalmente in Italia, e soprattutto nell’isola, i grandi autori francesi.

Quel rapporto così viscerale che lega la Sicilia alla cultura d’Oltralpe, dunque – rapporto che porterà, tra gli altri, Sciascia ad occuparsi di Stendhal e Bufalino a tradurre Baudelaire – conobbe la sua scintilla iniziale proprio in quel di Palermo, grazie alla ribellione culturale del gruppo capitanato da Moleti e Pipitone, apertamente in disaccordo con un certoo sterile nazionalismo. Punto di riferimento assoluto delle loro riflessioni – che già avevan preso forma nel pregevolissimo romanzo di Moleti Il Signor di Macqueda (1881), ambientato tra i corridoi di un manicomio in cui il protagonista è rinchiuso – fu la produzione naturalistica di Émile Zola. Ai nostri conterranei, del resto, stava particolarmente a cuore la cosiddetta questione degli ultimi: gli operai sfruttati e maltrattati, gli abitanti delle periferie putride e decadenti, l’alienazione e la nevrosi dei vagabondi ciondolanti per strada o accasciati sul bancone di una squallida bettola, gli invisibili ignorati dalle civilissime istituzioni del XIX secolo. Non è certo un caso che Enrico Onufrio, altro sodale vicino ai fondatori del giornale, così intendesse la funzione dello scrittore realista: «Bisogna salire in soffitta, scendere nei tuguri, entrare nelle galere, nei manicomi, nelle caserme, andare in campagna, scendere nelle solfare, girare pei postriboli, salire nelle barche e quindi rivelare al mondo la vita di sacrifizi, di privazioni, di dolore, che sono costretti a fare gli uomini, le donne, i bambini delle ultime classi sociali, e domandare un po’ di giustizia, in nome del gran lavoro che essi fanno e che non ha compenso». Aleggiava, nella riproposizione di quelle pagine, un certo istinto libertario, nonché una sottile malinconia, una compassione sincera verso quegli scenari mortiferi. Lo stesso Zola, così come Guy de Maupassant, si premurò più volte di scrivere ai responsabili del giornale per manifestare la propria stima.

Il contributo del Il Momento, tuttavia, fu ben più ampio. Moleti e Pipitone, infatti, misero a disposizione di quelle pagine lungimiranti tutta la loro sconfinata conoscenza della letteratura francese (Moleti fu addirittura uno dei primi traduttori di Baudelaire, se non il primo, e il primo italiano a realizzare un contributo monografico sulla sua opera): favorirono in Italia la circolazione del Baudelaire “minore”, di Flaubert, di Huysmans, di Madame de Staël, di Victor Hugo. A tal proposito, come riportato da Saverio Santangelo in Cultura francese in Sicilia tra ‘800 e ‘900, Pipitone sosteneva che la letteratura straniera potesse essere «una sorgente a cui dobbiamo rianimarci, sorgente sconosciuta alla massima parte degli italiani, ma fresca, inesauribile, capace di rinovellare il sangue che ci scorre tardo per le vene; è una terra vergine che si offre ai nostri sguardi coi suoi incanti, le sue attrattive. Essa, al pari di una fata, avrà possa di trasformare l’arte italica». Un auspicio che, almeno in parte, trovò riscontro nella prassi. Attorno al giornale e ai suoi promotori gravitarono, infatti, eminenti personalità provenienti da ogni parte d’Italia: ai sicilianissimi Verga, Capuana, Rapisardi, Fleres e Pitrè si sommarono Turati, D’Annunzio, Molmenti, Pica.

Ma, si sa, anche le spinte propulsive più scattanti possono andare incontro ad un rapido affievolimento. Il Momento, condizionato da un duplice ordine di fattori, non ne fu immune. Da un lato, la popolarità del giornale andò scemando, forse in virtù di un gusto che andava rapidamente modificandosi in concomitanza con l’ascesa dell’estetica dannunziana. Dall’altro, fu il colera a dare il definitivo colpo di grazia: l’epidemia scoppiata in Italia nel 1884 non risparmiò neppure l’isola. Palermo, nel settembre 1885, era praticamente in ginocchio. I primi ritardi nella pubblicazione si tramutarono presto in qualcosa di definitivo. L’ultimo numero fu quello di dicembre. Ma la traccia, l’eredità di quello sforzo intellettuale resistette al tempo e alla malattia. Transitando verso il ‘900, e oltre, come una nuvola sospinta dal vento.

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