È vero: accade spesso che un turista, uno straniero o un semplice passante approdato casualmente da terre lontane geograficamente e culturalmente riescano a cogliere, di un certo territorio, sfumature sorprendenti e autentiche, il più delle volte celate agli autoctoni dalla freddezza della consuetudine. Tuttavia, con la medesima frequenza, a questi occhi vergini e scrutatori resta inaccessibile una percezione quasi spirituale dei luoghi e degli abitanti che li ospitano, una familiarità con la magia ed il paradosso dell’appartenenza, un coinvolgimento disperatamente integrale che sappia non solo selezionare le bellezze capaci di suscitare la piacevolezza dei sensi, ma anche immortalarne le più profonde e sofferenti verità. E quale terra, meglio della nostra Sicilia che da secoli si offre come scenario d’eccezione dei grandi movimenti della storia umana, potrebbe prestarsi meglio a questa riflessione? A ben vedere, infatti, tra i viandanti più o meno illustri che hanno lasciato traccia del loro viaggio nell’isola, è raro trovarne qualcuno che non si dica perdutamente innamorato dei nostri paesaggi mozzafiato, del nostro folklore o dei nostri monumenti più emblematici. Ma quanti di loro hanno osato amare la Sicilia addolorata dei sobborghi illusi abbandonati? Quanti, messi da parte lustrini e paillettes, hanno amato questa terra quando era stanca e struccata? Quanti, constatata la sua capacità di sorridere nelle sventure, hanno ascoltato il suo pianto e si sono bagnati delle sue lacrime roventi. Nessuno. Tranne uno. Lo scrittore, medico, pittore e giornalista torinese Carlo Levi.

Conosciuto principalmente grazie alla sua opera più rappresentativa – quel Cristo si è fermato ad Eboli pubblicato nel 1945 da Einaudi che già di per sé apre uno squarcio decisivo sugli scandali della questione meridionale – Levi trascorse diversi giorni in Sicilia nel 1952. Un’esperienza trasposta poi in scrittura nel 1955 con Le parole sono pietre, vincitore del Premio Viareggio nell’anno successivo e fortemente ostracizzato da alcuni potenti isolani che non gradirono il ritratto che il giornalista aveva restituito di loro. Già il titolo, del resto, nella sua tagliente eloquenza, è una dichiarazione d’intenti radicalmente etica e un avvertimento ad ogni potenziale lettore: la sua è una testimonianza eterna come le incisioni sulla roccia, una di quelle che mettono spalle al muro gli ipocriti che amano trincerarsi dietro la comodità di un “non sapevo”. Nella ricognizione di Carlo Levi bellezza e tristezza, tenerezza e crudezza, compassione e feroce denuncia si mescolano per formare un quadro senza precedenti. Come quello che emerge dal transito nelle zone di Bronte – in particolar modo della Ducea di Maniace – simbolo di una Sicilia mai doma e mai sazia di speranza eppure condannata da indicibili prepotenze come quelle di Nino Bixio:

«Dopo un’altra sciara, la scira Nova, una delle cento che scendono, come ruscelli, dall’Etna, si entra in Bronte. Mentre ci guardavamo attorno cercando qualche vestigio di storia, dei contadini mi riconobbero e mi invitarono a visitare le loro case. Lasciammo così la strada e il quartiere dei signori e scendemmo, per le stradette ripide, nei Cortili dei poveri. Di rado può vedersi, in un paesaggio lussureggiante, sulle falde del più illustre e fertile vulcano, nell’aria abitata dai più illustri Dèi, tanta miseria. Visitammo molti Cortili: i contadini e le donne dalle soglie ci facevano cenno di entrare perché vedessimo in che modo vivevano. Per terra, nelle strade, nei Cortili in pendio, scorrono, per mancanza di fogne, le acque putride, e il tanfo prende alla gola. Le case, se così si possono chiamare, sono delle tane dove piove dai tetti di canne, affumicate, spoglie, senza finestre, dove in pochi metri quadrati vivono accatastate otto, dieci, dodici persone. I bambini, dagli splendidi visi d’angeli. Hanno le pance gonfe per la malaria: è lo spettacolo della più estrema miseria contadina, inaspettata in questa costiera di paradiso. Così vivono i braccianti di Bronte dopo i fatti del 1848. Malgrado tutto, sperando nel futuro con umana vitalità».

Poche, sapienti pennellate di lirico realismo. La sintesi perfetta di una lotta senza fine con il tempo e la storia. Una Sicilia fatta di sguardi feriti ma troppo pudichi per mostrarlo fino in fondo, di malinconie ataviche che luccicano nella natura riverberandosi sulle nostre pose, di orgogliose riottosità periodicamente divampanti come il più furioso degli incendi.

«L’estate cala sulla Sicilia come un falco giallo sulla gialla distesa del feudo coperto di stoppe. La luce si moltiplica in una continua esplosione e pare riveli e apra le forme bizzarre dei monti e renda compatti e durissimi il cielo, la terra e il mare, un solo muro ininterrotto di metallo colorato. Sotto il peso infinito di quella luce gli uomini e gli animali si muovono in silenzio, attori forse di un dramma remoto, di cui non giungono alle orecchie le parole: ma i gesti stanno nell’aria luminosa come voci mutevoli e pietrificate, come tronchi di fichi d’India, fronde contorte di ulivo, rocce mostruose, nere grotte senza fondo».

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