La Pasqua, più di ogni altro appuntamento festivo, possiede una connotazione decisamente ambivalente. Che la si guardi da una prospettiva religiosa o la si consideri nella sua valenza laica – o “paganeggiante”, per così dire – si staglia sempre, sull’orizzonte delle sue celebrazioni, una vena di sottile malinconia che fa da contrappeso all’attesa della resurrezione o del risveglio primaverile. Le fedeli e sentite riproduzioni della via che portò al Calvario, i lamenti tipici di svariate usanze folkloristiche locali, l’attesa spasmodica di una floridezza che si lasci alle spalle gli stenti della stagione fredda: se Pasqua è sinonimo di compimento, in misura altrettanto prominente deve esserlo di sospensione. Difficile, d’altra parte, trovare metafora più calzante dell’esistenza umana, fatta di imprevisti e assordanti tonfi così come di vette sublimi ed ineffabili. Quasi come, insomma, se nel ciclo universale che ogni anno si ripresenta nel suo accadere fosse contenuto il destino di ogni singolo, il bilancio intimo e personalissimo di ogni uomo che fa i conti con le proprie allegrezze e le proprie inquietudini. Ne sa qualcosa il grande Luigi Pirandello, che negli anni della propria giovinezza esperì, suo malgrado, questo misterioso intreccio di universalità e biografismo. Da questo inatteso incontro, negli anni in cui lo scrittore si trovava in Germania, a Bonn, per arricchire la propria formazione, nacque un’opera del tutto singolare: non soltanto per la forma poetica – che Pirandello non utilizzò mai in maniera troppo diffusa – ma anche e soprattutto per la stratificazione di sentimenti che seppe racchiudere in poco più di un centinaio di pagine.

Pubblicata nel 1891 dall’editore milanese Galli, la raccolta Pasqua di Gea include ventidue struggenti liriche che l’autore girgentino dedicò alla dolce Jenny Schulz-Lander, che gli aveva gentilmente concesso la propria residenza familiare come luogo di soggiorno per trascorrere serenamente i suoi anni di studio in terra tedesca. Tra i due, ben presto, esplose una vigorosa e tenera passione, che li avrebbe persino condotti al matrimonio se il fato non avesse avuto altri piani per l’autore di Uno, nessuno e centomila. Un serio problema di salute lo costrinse a rientrare in Italia, abbandonando per sempre il proposito di una vita felice in compagnia dell’adorata Jenny. Benché raramente menzionata nelle ricostruzioni critiche relative alla vita e all’arte di Pirandello, il distacco dall’amata provocò nell’animo dello scrittore un turbamento non indifferente. Ed è curioso constatare come egli stesso abbia associato a tale scoramento l’immagine – di stampo certamente classicista – del rigoglioso rifiorire primaverile che la natura porgeva in omaggio a Gea. Nella visione lacrimevole di Pirandello, infatti, la riconquistata meraviglia del creato non funge da correlativo oggettivo di un ricordo felice, quanto, piuttosto, di una stridente e irraggiungibile illusione, di una felicità perduta che si manifesta per altri ma non per lui. Nei profumi pasquali, nello sgargiante colorarsi del mondo, lo scrittore non ravvisa alcun conforto, bensì l’insostenibile consapevolezza di ciò che ha irrimediabilmente perduto. La rinascita della vita, per Pirandello, corrisponde alla rinascita di un dolore mai sopito, di un’amarezza solo parzialmente mitigata dagli istanti sereni del passato. Perfetta testimonianza di questa sofferenza è la lirica VI, nel quale, ondeggiando tra l’eco della triste sorte di Orfeo ed Euridice e un inevitabile richiamo al tema della Passione, il poeta suggella l’addio definitivo all’oggetto del suo pianto:

Non oggi, va! dimani,
diman ti giungerò,
Larva dei sogni miei,
lucifera fanciulla,
te che il mio tutto sei,
e pur, forse, sei nulla.
«Toglimi!» spesso dice
il labbro tuo, ridendo:
«io t’amo, e mi ti do».
No, larva; se ti prendo,
non sarò più felice:
crudele è nostra sorte,
ed io per prova il so.
Sconcian le nostre mani
ogni più bella cosa…
Va innanzi, e senza posa
io dietro a Te verrò.
In questa pena lunga
di giungerti è la vita;
sarà tosto finita,
come, o ben mio, t’avrò.
Tu, che sì bella sei,
Larva dei sogni miei,
tu sei, forse, la morte.
Va dunque. Ove m’adduci
non mai saper vorrò.
Va sempre. Ove tu vai
affascinato io vo.
E mai non ti raggiunga,
e non s’allenti mai
questo invisibil filo,
con che tu mi conduci.
Mi laceri e mi punga
pure ogni spina ascosa
tra i fior del nostro corso
;
schermir non me ne posso:
assorto nel desìo
di Te, fuggente sposa,
oggi l’acuto morso
non sento de le spine,
diman non vedrò il fosso,
cui pur tu mi guidi,
tu, che sì dolce ridi,
Larva del pensier mio.
Ma in questo ignoto asilo,
dimmi, avrò pace alfine?

E a quella stessa speranza si affida oggi l’uomo, in questi giorni complicati come non mai: che l’amore, per quanto percosso, non ceda alla disperazione. Che la primavera non sia il canto del cigno di un mondo pronto a inaridirsi. Che la vita, sperduta tra le macerie degli uomini, trovi nuovamente la via della vittoria. Che ognuno di noi impari nuovamente, per quanto male possa fare, a custodire la gioia anche quando non è più raggiungibile.

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