«Cosa significa essere una fotografa? Significa spogliarsi di tutte quelle che sono le nostre idee preconcette e andare in cerca di qualcosa di molto più profondo della verità, qualcosa di assolutamente nascosto e la fotografia come tutto ciò che è un’icona, lo rivela». Nata a Bari nel 1927, Cecilia Mangini amava documentare la complessità del mondo, infondendo nelle immagini la forza della sua personalità, forgiata dall’essere cresciuta come donna negli anni’50. Il suo sguardo ha indagato con curiosa riservatezza istanti intimi e personali della gente con cui spesso si soffermava a parlare, i gesti di una quotidianità appartenente ad un tempo ormai lontano.

Cecilia Mangini, insomma, ha spezzato e oltrepassato i margini maschilisti della propria epoca. È andata in Vietnam, ha eluso le censure, ha scavato nei pregiudizi, ha avuto il coraggio di dire l’indicibile attraverso reportage, immagini e video. A 93 anni, il 21 gennaio di quest’anno, è morta a Roma.

La sua prima avventura da documentarista la condusse proprio in Sicilia, nel 1952, presso le Isole Eolie. Cecilia aveva 25 anni e racconta così la scelta del luogo: «Volevo fare una vacanza alle Eolie. Che esistesse un luogo così bello l’ho saputo dal passaparola dell’amico di un amico di un pescatore subacqueo innamorato dei suoi fondali bassi con le orate e dei ricci attaccati agli scogli a pelo d’acqua».

Poi la scoperta folgorante e travolgente di Lipari e del suo meravigliosa bianco, riflesso nelle cave di pomice. Il fotoreportage che ne nasce non era nato come un servizio fotografico su commissione, ma come l’esigenza della narrazione di quello che scopre di minuto in minuto. In quell’occasione la giovane Cecilia si convinse in maniera definitiva di voler essere una fotografa. Una documentarista.

Era solo una ragazza. Da Lipari a Panarea il passo fu breve: un’altra isola, un altro mondo, i volti dei ragazzi del luogo, dei pastori, dei pescatori, affaccendati nei loro quotidiani affanni.

Tra il vastissimo materiale che ha lasciato di quella esperienza sicula, fatto di provini, stampe, appunti e riprese dimenticate in un cassetto per anni, è stata scelta la foto presentata in questo appuntamento della rubrica. È un’immagine in bianco e nero surreale, rappresenta una grande cava di pomice, ma sembra un granaio con i suoi giganteschi sacchi di farina, o la costruzione di una piramide nel deserto. Gli uomini che ci lavorano sono schiavi, curvi sotto una mole di fatica con la testa bendata all’orientale, il petto nudo e le braghe bianche. Una donna scalza ha un ombrello, pronto a essere usato per ripararsi dal sole che brucia, sembra incidere sulla neve estiva la sua scia come la schiuma di una nave. Imponente l’ombra che sulla pomice bianca produce il sole del mezzogiorno. La giovane con la mano destra sembra portare un recipiente con una bevanda per dissetare chi sta lavorando la pomice con un caldo asfissiante. Uno dei due che lavora guarda con grande attesa la giovane, potrebbe essere anche il momento di una piccola pausa in quell’inferno bollente che sfianca chiunque.

Dopo il suo arrivo a Roma ha sempre rivolto la sua attenzione verso la “cultura della miseria” documentata attraverso un occhio fotografico tutto al femminile. Tra i suoi scatti più celebri compaiono quello di Federico Fellini intento a correggere un testo armato di penna d’oca; quello di Vasco Pratolini sorridente in posa davanti a lei. E ancora: Curzio Malaparte, Indro Montanelli, Chaplin, Pasolini, Moravia, Elsa Morante, Carlo Levi e i contadini radunatisi per un comizio del Partito comunista italiano vicino Bari, nel 1956.

In una nota di qualche tempo fa, Cecilia ha scritto: «La realtà è una divinità elargita a chiunque sa afferrarla nel momento in cui le immagini danno il senso della realtà, il senso di quello che scorre insieme e dentro la nostra vita come un fiume carsico che ogni tanto affiora, scompare e ricompare».  Fotografare per Cecilia era una continua avventura perché le immagini pretendono di essere afferrate, rifiutano ostinatamente il destino di non restare per nessuno. «L’immagine è lo sguardo che non appartiene solo a chi realizza la foto, gli appartiene in quel preciso momento e poi non più: è suo solo per un attimo, dopo il clic l’immagine viene eternizzata per tutti quelli che in futuro la vedranno».                 

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