«Fotografare una finestra ricoperta di gocce di pioggia mi affascina cento volte di più del ritratto di un personaggio famoso». L’idea di fotografia di Saul Leiter, gigante dell’arte dell’immagine di strada è di quelle che, nei fatti, rivoluziona il mondo dello scrivere con la luce. La sua arte è indissolubilmente legata alla città di New York, vera musa ispiratrice dei suoi scatti. Una vocazione, quella per la fotografia, che si è imposta, nel tempo, più forte di ogni altro condizionamento. Il suo destino, infatti sembrava scritto: diventare un rabbino sulla scia degli interessi del padre, studioso dei testi sacri dell’ebraismo). Poi, però, all’età di 23 anni, l’epifania: la pittura, nel passaggio da Pittsburgh alla Grande Mela lo conquista. Ad ispirarlo è soprattutto l’espressionismo astratto dell’amico Eugene Smith. Da lì alla fotografia il passo è breve. Siamo agli inizi degli anni ’50: Leiter comincia a scattare, la sua cifra stilistica è rappresentata dal bianco e nero, ma anche il colore finisce per trovare il suo spazio.

L’anno fondamentale per la sua carriera è il 1957: gli viene affibbiata la definizione di “autore a colori”. Il suo obiettivo diventa il mezzo privilegiato per raccontare il fervore che anima le vie di Manhattan. Lo colpiscono soprattutto i vetri appannati dei locali, o i finestrini bagnati dei taxi. Studia le forme che gli oggetti acquisiscono quando vengono investiti dalla pioggia. Pian piano, il suo sguardo su New York si trasforma in una enorme ed affascinante tela, dove a combinarsi sono toni saturi, atmosfere rarefatte e inquadrature distorte.

Un dato, questo, non immediatamente comprensibile, se è vero che fruttano a Leiter, una certa dose di critiche: «Le mie non sono affatto “stonature”, ma nuove sonorità, note che non avete mai ascoltato prima». In effetti, le sue inquadrature mai viste prima, offrono allo spettatore un nuovo modo di guardare e vivere la realtà. La malinconia degli inverni newyorchesi di trasforma in leggerezza. Il caos diventa materia poetica.

«Certi fotografi – ha affermato – pensano che, ritraendo la tristezza delle persone, stiano trattando un tema serio. Io non penso che l’infelicità sia più profonda della felicità». La critica e il mercato scoprono tutta la magia del Saul Leiter “a colori” solo negli anni ‘80, ma questo ritardo non lo ha mai turbato più di tanto. «Non ho una filosofia mia, ho solo una macchina fotografica, guardo nell’obiettivo e scatto. Il risultato è una minima parte di ciò che potrebbe essere raccontato. In fin dei conti, i miei lavori non sono altro che frammenti di infinite possibilità».  Saul muore il 26 novembre del 2013 a New York. In inverno. E non poteva essere altrimenti.

Leiter usava pellicole Kodachrome che furono introdotte sul mercato nel 1935, le prime pellicole a colori accessibili a tutti, vendute in rullini 35 mm. Ciò che contraddistingue la sua tecnica è una continua attitudine alla sperimentazione: rullini scaduti, o alterati dalla temperatura e liquidi chimici di stampa venivano riutilizzati in modo personale. Il risultato era un tono tenue, quasi pastello, che conferiva all’immagine quasi l’illusione di essere un dipinto più che una fotografia.

I soggetti umani sono raramente il punto focale delle sue immagini come accade in una foto del 2010 – oggetto di questo appuntamento – dal titolo “Snow”. È un immagine che ancora una volta affronta una nevicata sulla Grande Mela, ma lo fa da una prospettiva diversa dalle solite: il fotografo è infatti al chiuso, protetto da una vetrata, che, nel contrasto tra il calore interno e il freddo esterno, risulta ovviamente appannata, salvo qualche rapida passata di mano, probabilmente dello stesso Leiter, per poter riuscire quantomeno ad intuire le forme esterne. Forse dietro la figura che sembra guardare un cellulare c’è una nave, chissà. La scritta è chiara: «Ci sono ancora posti a sedere in sala da pranzo». Da questo ristorante il maestro americano realizzerà molti scatti poi diventati famosi, sono scorci non solo di una strada, ma di un’intera vita; uno scorcio che però è sempre appannato, sfocato, parziale, e da cui riescono ad emergere solo figure indistinte, che lasciano all’immaginazione il compito di ricostruire i particolari mancanti.

Il metodo Leiter risulta abbastanza semplice: uscire in strada e cercare situazioni che potessero esaltare da un lato il contrasto di colori, soprattutto tra toni caldi, come il giallo, il bianco della neve e il grigio della pioggia, per immortalare il senso di indeterminazione che avvolge l’uomo moderno. Leiter ha continuato a scattare fotografie quasi fino alla sua morte alla fine del 2013, all’età di ottantanove anni. «Mi piace quando non si è certi di ciò che si vede – ha dichiarato nel 2012 – quando non sappiamo perché il fotografo ha scattato una foto e quando non sappiamo perché la stiamo guardando, all’improvviso scopriamo qualcosa che iniziamo a vedere».

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