Conversando con l’amico di sempre Nunzio Zago, una volta Bufalino affermò che «il nostro solo alleato contro la morte è la scrittura». Come a voler dire che il tempo, con il suo flusso inesorabilmente corrosivo, talvolta può magicamente piegarsi al volere dello scrittore, e tramutarsi perennemente in memoria. Come a voler dire che la fragilità dei ricordi, continuamente minacciata dalla rapidità con cui la responsabilità del futuro ci si para davanti, non è sempre destinata a soccombere. Nel celebrare quello che sarebbe stato il centesimo anno dalla nascita dello scrittore di Comiso, verrebbe da pensare che avesse proprio ragione. Non soltanto perché la sua grandezza e la sua fama continuano inesauste a travalicare l’alternarsi delle epoche e delle generazioni, ma soprattutto per il valore di testimonianza che la sua vita e la sua opera hanno rappresentato. Perché Bufalino non è stato appena un geniale scrittore. È stato un cantore della libertà interiore, un simbolo di emancipazione dal dolore. Colui che, smorzandone le pieghe travolgenti, ha rivoluzionato il volto del tempo. Rendendolo innanzitutto un fedele alleato, per poi asservirlo alla sua fervida inventiva.

E proprio da un lungo, silenzioso confronto con il tempo scaturì la genesi della sua attività. Quando Sciascia, con il coraggio che accompagna i grandi ingegni, fece breccia nella sua fittissima nube di riservatezza e lo spinse a dissotterrare dalle profondità dei suoi cassetti un romanzo straordinario, covato per circa sessant’anni. Si trattava di Diceria dell’untore. Un racconto figlio del tempo (e di tutta la letteratura che Bufalino, diviso tra Hugo e Tolstoj, tra Valéry e Pascal, aveva voracemente consumato fin dall’infanzia), dunque. Che col tempo, oltretutto, faceva anche a botte. Nel riapprodare letterario ai grigi e traumatici giorni del sanatorio, infatti, Bufalino ripercorreva l’impotenza del passato attraverso il filtro di una nuova, più matura consapevolezza: quella del sopravvissuto che ha memorizzato il sentiero della salvezza. Non è un caso che, al termine del romanzo, l’unico a scampare ad una morte certa sia proprio il protagonista. Né dovrebbero passare sottotraccia altri titoli eloquenti come Argo il cieco ovvero i sogni della memoria o Le menzogne della notte. Furono i fantasmi a salvare Bufalino. Quelli della finzione artistica, attraverso la quale era possibile riscrivere le regole della propria vita. Quelli del passato accanto ai quali Bufalino amava rannicchiarsi per scacciare le incertezze del domani. Quelli che animavano i personaggi sulla scena, ombre del cuore tra cui sceglieva spesso di mescolarsi per dirimere le questioni rimaste in sospeso nei suoi pensieri. Sottrarsi alla morte nel regno laico della vita eterna: a questo servivano le storie che Bufalino definiva «babilonie di carte, universi paralleli e bugiardi». Niente veniva lasciato al caso in nome di questo meticoloso e ambizioso tentativo di fuga dal nulla: neanche lo stile, volutamente voluttuoso per ricercarne un effetto straniante. Persino il linguaggio, in Bufalino, è fuori dal tempo: frammento di un mondo che non c’è più o che deve ancora nascere, bellezza cristallizzata che non teme deterioramento, «il giocattolo più serio e caritatevole fra quelli degli adulti», che rompe ogni consuetudine e produce orizzonti inesplorati. Soggetti non a canoni fossilizzati dalla tradizione, ma ai bonari schiribizzi dell’autore, padrone assoluto delle sue creazioni.

Così, in occasione di una ricorrenza tanto significativa, vale la pena celebrare Bufalino: come l’artefice di un miracolo che ancora oggi nobilita la letteratura. Come un uomo che il tempo ha duramente temprato e capace, da quella stessa minaccia, di sottrarsi con il solo aiuto del proprio intuito. Ciò che ancora rimbomba dal cuore di Comiso, e che si presenta ai nostri occhi come un’eredità inalienabile, è un antidoto all’amarezza della nostalgia, un freno alle paure che ci incatenano alla mediocrità, una spinta a ricercare la verità non dove qualcuno ha stabilito che debba trovarsi, ma nell’intimo dei nostri desideri più sinceri e inascoltati. «Si scrive – sosteneva ancora – per popolare il deserto, per non essere più soli nella voluttà di essere soli». Si scrive per dare corpo alle utopie. Per dare al sogno la consistenza della pagina. Per credere che il tempo ci appartiene. Se molti hanno imparato a farlo, lo si deve proprio a Bufalino. Buon compleanno. E grazie, Don Gesualdo.

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