A volte, per affacciarsi alla vita con gli occhi dei grandi, è necessario che uno stupore fanciullesco prenda il sopravvento nella nostra coscienza. Che involontariamente, indirettamente, ingenuamente, qualcuno chiami per nome la nostra più intima vocazione fino a farla affiorare in tutta la sua complessità. Sono epifanie di attimi, ganci sospesi nel cielo dell’incertezza che si lasciano afferrare, selvagge irrequietezze da domare dolcemente. Sono le risposte che l’arte, nelle sue più svariate forme, ci propone per sanare le erranti contraddizioni delle nostre abitudini, le miracolose e indefinibili contingenze che spalancano le sparute fessure nelle distese del niente. Benedetti imprevisti – o vie di fuga tenacemente ricercate – che si sono parati davanti al cammino di innumerevoli intellettuali prigionieri talvolta di una greve aridità materiale, altre volte di una indeterminatezza costitutiva capace di trovare sublimazione soltanto in un altissimo ed effimero virtuosismo. Pensiamo a Fëdor Dostoevskij e al ruolo che la letteratura ebbe nella sua vita dopo essere miracolosamente scampato alla pena capitale in Siberia; o a Franz Kafka e il suo fatale incontro – presto tramutatosi in fitto rapporto epistolare – con l’amata Milena Jesenská, unico parziale rimedio alle pene di uno spirito tanto malconcio quanto il suo fisico. E che dire di Leopardi, nato all’ombra dell’isolata Recanati sette-ottocentesca e a lungo impossibilitato ad evadere da quella cappa di mediocrità se non attraverso la biblioteca paterna e le consolazioni dei grandi autori del passato. E un po’ leopardiana è anche la storia del nostro Vincenzo Consolo e della sua Sant’Agata di Militello al tempo della reggenza fascista, tra censure, prepotenze e solitudine. Una storia suggestiva ricostruita dallo stesso autore in Della felicità del leggere, di cui recentemente è stata approntata una nuova edizione per i tipi di Henry Beyle, in cui caso, destino e disperata forza di volontà si incontrano nella nascita di uno straordinario letterato.

«In una casa senza libri, in un paese senza biblioteca e librerie mi sono trovato nella remota infanzia, nell’adolescenza, in un deserto con brama e miraggi di letture che intuivo necessarie ad aprirmi varchi, sentieri di conoscenza e salvezza, letture diverse da quelle velenose della scuola nel fascismo o dalle altre tristi e mortificanti dispensate dai preti dell’oratorio». Chiudendo gli occhi, sembra quasi di vederlo, Consolo, aggirarsi per le viuzze del paese con lo sguardo affamato di grandezza, con la smania giovanile che pretende di lasciare un segno tangibile del suo passato, aggravato dal fardello, come un greco al cospetto della Pizia, di una profezia indecifrabile che tarda a compiersi. Ma forse è proprio questo il bello delle profezie: che giungono alla loro realizzazione senza avvisare. Senza presentarsi. Senza svelare, fino all’ultimo, che stanno per stravolgerti la vita: «Scoprii per prima una polla d’acqua fresca nella casa d’un cugino di mio padre, un piccolo proprietario terriero che viveva d’una magra rendita, solo e scapolo, a cui la fantesca aveva regalato un figlio. Nei momenti d’odio, di furia verso il mondo, verso il podestà e il regime, don Peppino s’affacciava al balcone e declamava versi dell’Inferno, brani di “Vittor Ugo”, dei Miserabili.  Scoprii nella sua casa nove o dieci libri (“I libri giusti per capire chi sono questi tiranni!” diceva), che non mi dava in prestito, ma mi faceva leggere là, seduto a un tavolo di marmo, sotto il suo sguardo vigile». Consolo e la letteratura si erano appena abbracciati per la prima volta. Per non lasciarsi mai più: «Un’oasi poi scoprii, ricca di zampilli, di ruscelli, d’alberi dai frutti prelibati, in casa del mio compagno delle scuole medie Beniamino, figlio d’un avvocato.  Andavo da lui a fare i compiti, a fargli i compiti, i temi, le versioni, ché Beniamino, grasso e pigro, non aveva amore per la scuola, per lo studio, e in cambio ottenevo in prestito i libri in mostra per arredo negli scaffali neri dello studio di suo padre, bei volumi intonsi in finissima carta d’India, rilegati in marocchino.
Fu grazie a quella biblioteca che potei leggere Shakespeare e Molière. Boccaccio e Goethe, Stevenson e Defoe, Manzoni e Nievo, Melville e Poe, Tolstoj e Dostoevskij, D’Annunzio e Deledda…  Leggere con furia, con disordine, come se dentro quei boschi fitti di parole, fra quegli immensi alberi, di cui non sospettavo la profondità delle radici, non sapevo vedere la prodigiosa altezza, il rigoglio delle chiome, andassi alla ricerca d’un tesoro.  E non capivo che il tesoro consisteva nell’ossigeno che respiravo di quel bosco, nelle erbe, nei muschi, nelle bacche di cui camminando mi nutrivo
».

Perché la grandezza – quella che si riceve e quella che si dà – è spesso il risultato della convergenza di piccole cose: un metro quadro di silenzio nel caos della storia, un grido sguaiato a cui nessuno pone attenzione, un libro impolverato tirato fuori di nascosto dagli scaffali della dimenticanza. È l’ingresso ai segreti del mondo che si conquista con sudore e con leggerezza. Il riflesso di cose lontane che si adagia sui chiaroscuri di quelle vicine: «L’incontro che per la prima volta mi fece poggiar lo sguardo sul mondo in cui ero nato e mi trovavo a vivere, sugli uomini e le cose del paese, sui pescatori e i contadini, sui baroni proprietari, su me e i miei parenti, fu con Verga.  Verga mi fece decifrare il mondo complesso, intricato della mia Sicilia, quel mondo mi fece vedere, duro e pietroso, riflesso come in uno specchio, mi fece sentire la musica sommessa, il mormorio doloroso e risentito del suo dire.  E capii che da quell’incontro, da quel mondo, e dall’altro parallelo e più moderno di Pirandello, sarei dovuto ripartire per percorrere e capire, per decifrare ogni altro mondo. Ripartire da Acitrezza, da Vizzini e da Girgenti».

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