Attraverso l’altra faccia di quella medaglia che è la produzione letteraria del papà di Montalbano, una riflessione sugli inaspettati risvolti che può avere anche solo il pensare in siciliano e come siciliano. Dalla trama di questo romanzo storico alla Sicilia di oggi, un viaggio che ha come filo rosso il saper sfruttare la propria identità

Capita spesso, in situazioni più o meno goliardiche, di lasciarsi spontaneamente andare ad una battuta in siciliano per rendere con più forza il concetto che si desidera esprimere. Ma fare uso del dialetto può nascondere risvolti ben più profondi: il dialetto è uno degli strumenti principali con cui affermare la propria identità e la letteratura ci ha anche mostrato in che modo. Lo sa bene Andrea Camilleri, che nel suo romanzo storico La mossa del cavallo, recentemente trasposto per il piccolo schermo e con la magistrale interpretazione di Michele Riondino, ha fatto della riscoperta delle radici dialettali il fulcro della sua narrazione.

La vicenda, infatti, prende le mosse sul finire dell’800 e dalla nomina del genovese d’adozione, ma siciliano di nascita, Giovanni Bovara a ispettore capo dei mulini, col compito di porre un freno alla cronica evasione della tassa sul macinato. Durante una delle sue esplorazioni dei mulini isolani, si imbatte nel moribondo parroco locale padre Carnazza, che prima di spirare gli sussurra in dialetto i nomi dei suoi assassini, senza che il Bovara, in un primo momento, lo capisca. Inviso ai potenti feudatari che traevano vantaggio dal mancato pagamento delle tasse, l’ispettore verrà accusato a tavolino dell’omicidio del parroco, riuscendo a dimostrare la sua innocenza soltanto recuperando confidenza col suo dialetto d’origine. Il senso della trama e del colpo di scena finale, imprevedibile come il cavallo su una scacchiera, ci dicono molto di quello che per un siciliano può significare adottare il proprio dialetto. La geniale intuizione del Bovara, e quindi di Camilleri, dimostra che soltanto un siciliano che pensa e parla come tale può comprendere fino in fondo i contorti meccanismi di un’isola estremamente ingarbugliata, in cui i contorni di bene e male risultano sfumati, in cui il marciume, come lo definisce l’autore, sembra lasciare tregua soltanto la notte, per poi tornare alla ribalta con più forza il mattino seguente.

Michele Riondino interpreta Giovanni Bovara
Michele Riondino interpreta Giovanni Bovara

Se soltanto un siciliano può calarsi nelle profondità più oscure della sua terra, significa che è il solo a poterle portare alla luce e raccontarle ed è il solo a poterle combattere. Riscoprire e difendere le proprie origini, insomma, equivale ad assumersi la grande responsabilità di non farne un mezzo per ingannare e per nascondere il malaffare all’occhio esterno. Letterariamente, il dialetto è proprio questo, ovvero il mezzo d’affermazione dell’unicità e della scaltrezza siciliana, che anche in situazioni disperate è capace di trovare vie di fuga inaccessibili a chiunque altro. Perciò, bisognerebbe diffidare da coloro che, una volta abbandonata l’isola, si dicono estranei al sentimento della sicilitudine e vicini alle usanze del luogo presso cui si sono stabiliti, disprezzando ciò che si sono lasciati dietro: considerando il testo camilleriano, costoro non sanno, o non si rendono conto, di aver perso un punto di forza, un elemento di contraddistinzione e di esplorazione della realtà. Perché per dialetto non si intende soltanto il semplice atto linguistico, ma una visione più completa delle cose, uno sguardo esclusivo sul mondo, una finestra da cui analizzare il panorama circostante con più consapevolezza.

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