Claudio Fava ed Ezio Abbate: «Demistifichiamo la mafia per reimparare a combatterla»
«Dobbiamo abbandonare l’abitudine a proiettare le vicende di mafia in una dimensione epica e tragicamente distante da noi». Si è espresso così lo sceneggiatore Claudio Fava durante la presentazione del nuovo romanzo suo e del giornalista Ezio Abbate, Centoventisei, edito da Mondadori e del quale i due autori hanno parlato il 27 aprile presso il Teatro Stabile di Catania, con la moderazione di Raffaella Tramontano.
Secondo gli autori, infatti, «Parlare di mafia è un po’ come parlare di un poema epico di Omero, nel senso che significa andare alla ricerca di una dimensione assoluta, tragica, perfetta. Certe vicende, oggi, le sentiamo già fin troppo lontane dalla nostra quotidianità non solo perché risalgono a qualche decennio fa, ma anche e soprattutto perché sono sempre più distanti dal nostro immaginario». Eppure, ci tiene a sottolineare Fava, proprio per questo parlare di mafia è ancora e sempre necessario: «Dobbiamo cambiare rotta rispetto alle narrazioni degli ultimi trent’anni, ma non dobbiamo di certo smettere di affrontare l’argomento. È fondamentale che se ne continui a discutere nelle scuole, per esempio, e servirebbero dei programmi e dei contenuti di divulgazione a cui fare riferimento, anche se contemporaneamente andrebbe depurato questo racconto da tutto ciò che è “mitologico”».
DEMISTIFICARE IL MALE. Secondo Fava, in altre parole, sarebbe il caso di accantonare parole come martiri, eroi, sacrificio o battaglia, che pur essendo veritiere non contribuiscono a una narrazione e a una memoria utili dal punto di vista civico. «Non dobbiamo percepire il male come grandioso, né i mafiosi come dei nemici contro cui lottare: il male è antieroico, è prosastico, e restituirgli la sua giusta dimensione è uno dei passi indispensabili per acquisire una nuova consapevolezza e per prenderne allo stesso tempo le distanze». Ecco perché Fava è dell’idea che oggi «bisognerebbe avvicinare la storia della mafia alla storia delle nostre vite, ovvero comprenderne gli aspetti più banali e più quotidiani per demistificarne il fenomeno. Dietro la mafia, d’altronde, non esistono eroi e antagonisti di sorta, ma solo persone comuni che – come chiunque di noi – hanno la possibilità di scegliere il bene o di propendere per il male».
UN ROMANZO DALLA PROSPETTIVA INSOLITA. Si tratta di un concetto che proprio in Centoventisei emerge in maniera chiara, dal momento che il personaggio principale della vicenda è la celebre Fiat 126 rubata dalla mafia per compiere la strage di via d’Amelio, a Palermo, durante la quale il 19 luglio 1992 viene ucciso il giudice Paolo Borsellino. Ma a chi apparteneva quell’auto? Chi l’aveva rubata sapeva che sarebbe stata trasformata in un’autobomba? Attraverso quali percorsi, coincidenze e deviazioni mancate è arrivata sotto casa della madre di Borsellino, facendosi strumento di una delle più crudeli, dolorose – e per certi versi tuttora misteriose – stragi degli anni ‘90? È a queste domande che prova a rispondere in maniera singolare il romanzo, che gli autori definiscono come «un’opera di centoventisei pagine da leggere come un videogioco. Si entra infatti fra le sue pagine in modo immersivo, lasciandosi coinvolgere dai fatti che si verificano ed empatizzando quasi con questa famigerata automobile, mentre si comprendono meglio certe dinamiche adottando una prospettiva completamente diversa dal solito».
L’EMPATIA NON È EMULAZIONE. A questo punto sorge spontaneo chiedersi se umanizzare il discorso sulla mafia non rischi di farci avvicinare fin troppo alla visione del mondo dei protagonisti di Cosa Nostra. Claudio Fava, però, non ha dubbi: «Non è un’operazione che riteniamo pericolosa, perché anche i nostri lettori più giovani hanno capito che l’obiettivo del testo non è sviluppare uno spirito di emulazione nei confronti dei malavitosi, bensì osservare da vicino la loro esperienza. Suscitare empatia significa creare emozioni e nel frattempo conoscere la condizione umana di chi ha compiuto gesti disumani, senza per questo giustificarli eticamente». Alla sua riflessione si aggiunge quella di Ezio Abbate, che ci tiene a sottolineare: «Se c’è qualcosa che la letteratura e l’arte possono lasciarci, è una nuova e più matura presa di coscienza. Solo avvicinandoci all’oggetto della nostra analisi e familiarizzando con lui smetteremo di essere come i pesci degli acquari, che non si rendono di vivere al loro interno se non quando nell’acquario si forma una crepa e l’acqua inizia inesorabilmente a defluire. Approfondire una tematica di tale portata e informarci su ogni sua sfaccettatura è quindi cruciale per affrontare il lato più oscuro dell’animo umano, e per tirare fuori al tempo stesso la parte più nobile di noi».
Dal 28 aprile al 7 maggio, alla Sala Verga del Teatro Stabile di Catania, andrà in scena l’adattamento teatrale di Centoventisei.
La drammaturgia, le scene e la regia sono di Livia Gionfrida, mentre interpreti della pièce saranno David Coco, Naike Anna Silipo e Gabriele Cicirello.
La storia, come viene spiegato sul sito del Teatro, indaga da una prospettiva storica inedita, minima, addirittura sarcastica, uno degli eventi più importanti della storia italiana dell’ultimo trentennio.
Lo fa disegnando le personalità dei “pesci piccoli” dei clan mafiosi, quelli a cui viene dato il più semplice tra tutti gli incarichi: andare a rubare una macchina. Un anziano ormai navigato che si sente squalificato dal compito, un giovane inesperto che lo accompagna con fare da gradasso, la loro quotidianità per certi versi aberrante, impastata di una fredda e spaventosa consuetudine con la morte, e per altri grottesca, attraversata dall’ignoranza e dall’avventatezza di personaggi improbabili, imprudenti, superstiziosi, si rivela piano piano come l’assurdo terreno su cui si gioca la strategia stragista del biennio ‘92/‘93.
Dal tentativo del giovane ladro di rubare l’auto per la seconda volta, in questo caso per sottrarla all’organizzazione e restituirla alla proprietaria di cui si è nel frattempo innamorato, ha origine un rocambolesco susseguirsi di equivoci e disavventure, che si rivela amaramente insufficiente a disinnescare il disegno mafioso e che alla fine riporta lo spettatore alla storia che ben conosce, con tutta la portata delle sue conseguenze.