«Ricordo che, quando andai a scuola in quei giorni, mi presero le misure per capire a quale razza appartenessi. Ci misurarono con precisione la circonferenza della testa e il profilo del naso e stabilirono che fossi ariana, di tipo greco. D’altra parte, chi più di me, che sono siracusana, poteva esserlo? Ricordo anche di un professore che fu licenziato per le sue origini ebree e che per questo si tolse la vita. La promulgazione delle leggi razziali fu una tragedia che ci lasciò sbalorditi. Mai nessuno avrebbe potuto pensare che si sarebbe arrivati a ciò». C’è una cosa che le parole, a dispetto di quanto sforzo venga profuso nella loro ricerca, faticano sempre a raccontare: l’orrore. E la consapevolezza di ciò si fa sempre più strada nell’imminenza di ricorrenze cruciali come il Giorno della Memoria. Ogni volta che ne riesumiamo i contorni, infatti, un misto di impotenza e stupore paralizza il cuore e gela le vene, taglia il fiato e piega ogni tentativo di distaccata lucidità. Questo stesso sgomento ha dovuto sfidare Anna Cartia Bongiorno per ripercorrere le infami giornate successive al fatidico 18 settembre 1938 – data di annuncio delle leggi razziali italiane, che costarono la vita e la carriera a centinaia di siciliani in nome di una spaventosa follia – quando nel 2004 ha prestato la propria tentennante e scossa voce al documentario di Vincenzo Sottosanti La Sicilia in guerra. Benché, in effetti, una certa vulgata ormai consolidata descriva l’isola come risparmiata dalle conseguenze più efferate della furia nazifascista per via del precoce sbarco alleato nel 1943 (e per un numero ridotto di residenti di origine ebrea), l’ombra del regime mussoliniano e della sua mortale propaganda, in realtà, si allungò pesantemente sul destino di tanti nostri conterranei e di tanti illustri personaggi che in Sicilia risiedevano per le più svariate ragioni. Persino su geni irripetibili che avrebbero poi segnato un’epoca.

È il caso del fisico Emilio Segrè, formatosi nel celeberrimo gruppo dei ragazzi di Via Panisperna e vincitore del Premio Nobel nel 1959 per la scoperta dell’antiprotone, il quale, nel 1935, era stato nominato professore ordinario presso l’Università di Palermo e direttore, appena un anno dopo, del dipartimento di fisica. A seguito della sciagurata promulgazione delle leggi razziali, si trasferì negli Stati Uniti: tornò in Italia solamente nel 1989, quando venne sepolto nella natìa Tivoli. Una sorte migliore toccò al triestino Maurizio Ascoli, all’epoca direttore dell’istituto di clinica medica del medesimo ateneo e balzato agli onori delle cronache per i suoi studi sulla tubercolosi e sulla malaria che condussero a rivoluzionari metodi curativi. Paradosso volle che nel 1937 lo stesso Mussolini si fosse sperticato nel suo pubblico elogio, salvo esonerarlo da qualsiasi carica qualche mese dopo. Ascoli venne reintegrato in seguito alla caduta del regime e a lui, oggi, nel capoluogo, sono meritatamente intitolati l’Ospedale oncologico e l’aula magna del Policlinico. Intellettuali, commercianti, donne di cultura, bambini che scontavano le presunte colpe dei propri antenati spesso senza conoscere nemmeno una delle usanze ebraiche: nessuno sfuggì alla soffocante presa dei gerarchi. O quasi. Perché, nella Sicilia che Mussolini si vantò di aver convertito «fino al midollo» alla politica del regime, molti scelsero di opporre alla barbarie un sacro barlume di umanità:

«Secondo le leggi razziali – racconta Beniamino Schachter a Sottosanti – a mio padre sarebbe stato fatto di divieto di professare qualsiasi mestiere. La casa che lui stava costruendo con i suoi soldi gli sarebbe stata requisita. Io e mia sorella Sabina non saremmo potuti andare a scuola. In realtà questo non avvenne fino al 1941. Fui accettato a scuola, anche quando la mia famiglia fu internata a Lascari, nei pressi di Cefalù, dal direttore e dagli insegnanti e seguii le lezioni come tutti gli altri. I carabinieri del posto conoscevano bene quella realtà da 1800 abitanti, ma non se ne diedero per inteso. Conservo ancora, addirittura, delle regolari pagelle che arrivano fino al 1940, in chiara contraddizione con le disposizioni fasciste. Ciò che prevalse, a quel tempo, fu la solidarietà»

Quale miglior auspicio di coraggio e moralità potrebbe accompagnarci fino al prossimo 27 gennaio? Quale miglior modo per rinverdire il senso di una fratellanza troppe volte smarrita, in un’Europa – in un mondo – che si vede ancora attraversata da venti di guerra e di ostilità? La memoria, certo, va coltivata. Ma non a comando. Va condannata, ma anche redenta. E, soprattutto, va resa tale una volta per tutte.

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