Secondo Dante, esiste un solo desiderio che la natura umana non riuscirà mai a placare: quello derivante dell’avidità. Non importa quanto ingenti siano i beni di cui è possibile entrare in possesso; non importa quanto potere sugli altri derivi dall’instaurarsi di una tale condizione; e non basta neppure aver raggiunto risultati economici che vanno oltre ogni immaginazione: ci sarà sempre una ragione per bramare ferocemente qualcosa di più. Per avvelenarsi l’anima inseguendo utopie sempre più abiette. Neppure l’amore, constata il Sommo Poeta, per quanto accecante possa essere la passione che lo muove, impegnato com’è nella ricerca della propria anima gemella, è afflitto da questo continuo senso di tragica incompiutezza, da questa connaturata impossibilità di colmare il vuoto che produce. È il male di sempre, la lotta per il denaro e per il potere che ne consegue: la devianza universale che ha dato – e continua a dare – origine a tutte le altre storture di questo mondo. Alle guerre, agli inganni, alle liti, alle ripicche, alle vendette, alle invidie: tutto, a cascata, deriva da quell’unica, perversa, logorante volontà di possedere qualcosa in più del nostro prossimo. È una rete che ti intrappola, che ti soggioga, che di volta in volta ti para davanti nemici e fantasmi da abbattere, in un ciclo di violenza difficile da spezzare. Ne rese plastica testimonianza, a distanza di secoli, un altro raffinato e fantasioso ingegno: quello di Dino Buzzati, autore del romanzo illustrato La famosa invasione degli orsi in Sicilia, pubblicato originariamente a puntate sul Corriere dei Piccoli nel 1945 e successivamente edito in volume. Un’originale operazione letteraria, quella dello scrittore veneto, memore di celebri antecedenti come la Batracomiomachia di Leopardi, e sostanzialmente coeva ad un altro capolavoro del genere come La fattoria degli animali di Orwell, che si avvale di una patina favolistica per smascherare l’ipocrisia dei potenti e l’inutilità dei conflitti. E dello sfondo siciliano come emblema di un crocevia della storia.

Protagonista della surreale vicenda è, infatti, un branco di orsi guidati dal Re Leonzio, stanziati in condizioni precarie su una non meglio definita catena montuosa dell’isola, in attesa di sferrare un’imboscata ai danni dei territori appartenenti al Granducato di Sicilia. A guidare le azioni del sovrano degli orsi è anche un movente personale: la ricerca dell’amato figlio Tonio, catturato anni prima e apparentemente scomparso nel nulla. Il ritmo della narrazione è frenetico: tra battaglie a suon di palle di neve, incantesimi immaginifici e divertenti citazioni erudite – è il caso dell’orso Frangipane, che con le sue geniali trovate alla Archimede consente ai suoi compagni di portare a termine con successo l’assedio della capitale del Granducato – il punto di svolta avviene quando Leonzio scopre che Tonio è tenuto prigioniero nel palazzo del Granduca. I due antagonisti si confrontano aspramente in un duello che, apparentemente, avrebbe tutte le premesse per richiamare i grandi duelli dell’epica classica, ma che, tuttavia, si risolve in una grande zuffa a causa della quale in Granduca perde la vita. Pur malconcio, Tonio può finalmente ricongiungersi al padre perduto. Sembrerebbe il perfetto lieto fine, la quadratura del cerchio, il trionfo della giustizia sull’iniquità. E invece non è che l’inizio di un’ennesima, a tratti incomprensibile degradazione. Gli orsi cominciano ad umanizzarsi, a mostrare quei vizi che tanto avevano condannato quando si trovavano dall’altra parte della barricata. Al decadimento morale della neonata società, dedito ormai ad ogni forma di lascivia si aggiungono le macchinazioni e gli intrighi di palazzo. Fino all’ineluttabile finale: il cospiratore orso Salnitro ferisce a morte re Leonzio, poco prima che le sue guardie uccidano anche lui. Con gli ultimi rantoli di vita che gli sono rimasti, Leonzio prega i suoi simili di separarsi da quelle ricchezze che tanto li hanno obnubilati e di tornare sulle montagne per riscoprire l’autenticità smarrita. Gli orsi obbediscono, lasciando per sempre il mondo degli uomini.

Nell’apparente semplicità del romanzo – da cui poi sono state tratte una versione teatrale (1965) e un film d’animazione in cui Andrea Camilleri ha prestato la propria voce (2019) – si nasconde, in realtà, una condanna senza appello all’ingordigia degli uomini. Uno strale contro la loro incapacità cronica di distaccarsi da ciò che nuoce alla loro anima, contro la colpa di essere una piaga che infetta ogni anfratto di purezza. Schiavi di un’avidità senza fine. Marionette di quel potere che si scopre troppo grande, troppo degenerato per poter essere controllato. Un appello che, non a caso, ha scelto la Sicilia: crocevia della Storia per eccellenza, che per secoli ha visto alternarsi, scontrarsi, confondersi schieramenti, fazioni e convinzioni. Spesso pagandone le conseguenze in prima persona.

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