Recentemente, lo scrittore e critico d’arte inglese Julian Barnes ha affermato che, fin dalla prima comparsa del cinema, la letteratura si è vista costretta a interrogarsi sulla sua funzione e a cambiare la modalità con la quale era stata abituata a raccontare la realtà. Tuttavia, benché tale considerazione possa essere ritenuta in parte veritiera, ciò che lo studioso britannico dimentica di menzionare è che, con tutta probabilità, il cinema non esisterebbe senza quel serbatoio sconfinato di storie e linguaggi che è la letteratura. Non è appena una questione di soggetti, sceneggiature o dialoghi che si trasferiscono osmoticamente da un medium all’altro: è, piuttosto, un processo sensazionale che rende la narrazione scritta una sostanza visiva, una condivisione di sensi e di intenti capace di ammaliare la sensibilità del pubblico. Non è un caso che diversi eccelsi cineasti siano stati, in primo luogo, grandi interpreti della scrittura: come non pensare, da questo punto di vista, all’attività di Pier Paolo Pasolini? O a quella della famiglia Bertolucci, in cui il padre Attilio e il figlio Bernardo mescolarono per tutta la vita le due arti? Anche in Sicilia non mancano esempi illustri: su tutti, quello di Vitaliano Brancati, grande uomo di teatro oltre che romanziere, a cui il cinema italiano deve molto più di quanto si pensi.

Potrebbe destare stupore in molti, infatti, scoprire che, nel ruolo di sceneggiatore, il nome del professore di Pachino sia legato ad alcune iconiche, e precoci, pietre miliari della nostra cinematografia, spesso per di più legate a doppio filo alla produzione letteraria di altri illustri siciliani. Fin dal 1942, Brancati fu impegnato sul set di Gelosia, pellicola diretta da Ferdinando Maria Poggioli ed ispirata al capolavoro di Luigi Capuana Il marchese di Roccaverdina. L’anno dopo, fu la volta di Pirandello: affiancando il regista Giorgio Pàstina, lanciò sul grande schermo la trasposizione del dramma Enrico IV. E pensare che il periodo d’oro era ancora di là da venire. Precisamente, tra il 1948 e il 1954 (anno della sua sfortunata morte), lasso di tempo che lo vide attivissimo su più fronti. Da un lato con Anni difficili (1948), trasposizione della propria novella Il vecchio con gli stivali e capitolo iniziale di una trilogia da lui interamente concepita e diretta da Luigi Zampa, comprendente in seguito Anni facili (1953) e L’arte di arrangiarsi (1954, quest’ultimo con Alberto Sordi splendido protagonista). Dall’altro, al fianco di veri e propri mostri sacri del settore: nel 1951 sceneggiò il celeberrimo Guardie e ladri, diretto da Mario Monicelli e Steno ed interpretato da Totò e Aldo Fabrizi; poi fu la volta della collaborazione con Roberto Rossellini per Viaggio in Italia (1953) interpretato da Ingrid Bergman, che suscitò una tale impressione su Martin Scorsese da spingerlo a riprenderne il titolo per un suo documentario sul cinema nostrano. Infine, nel ’54, il ritorno a Pirandello per la trasposizione de La patente. Nel ’55, postumo, l’ultimo sceneggiato legato al suo nome: si trattava di Vacanze d’amore, diretto da Jean-Paul Le Chanois e Francesco Alliata. Ancora una volta, alle vette del suo ingegno aveva scelto di prestarsi un cast di altissimo livello: basti fare i nomi di Lucia Bosè, Delia Scala, Walter Chiari, Domenico Modugno. Un lascito, quello di Brancati, che, complice il tempo trascorso, è rimasto fin troppo trasparente rispetto alla considerazione collettiva, e che oggi va indiscutibilmente rivalutato. Alla luce non soltanto del successo che quelle pellicole continuano a riscuotere, ma per la valenza storica, culturale e artistica sottesa a quello sforzo di valorizzazione di un mezzo comunicativo che avrebbe poi definitivamente spiccato il volo negli anni ’60 e ’70.

Perché il cinema, per Brancati, non era solo una professione, ma un’estensione del suo essere e della sua poetica, un laboratorio di riflessione esistenziale da cui trarre continuamente nuove e più profonde suggestioni. Basta, del resto, ripercorrere le tappe di quella consistente filmografia per ritrovare, ben impressi, i suoi marchi di fabbrica letterari: la lucida e ironica descrizione degli altarini di una società ipocrita e arroccata sul proprio bigottismo; la malinconia della solitudine; l’irruento accadere della storia che travolge e stravolge la fragilità dell’umano; il gusto per il politicamente scorretto, per la battuta corrosiva, per il gesto che si oppone ad ogni genere di opprimente censura. Brancati non è stato solo un mediatore: è stato un sapiente inventore. E gli inventori, si sa, non smettono mai di essere attuali.

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