Dissentire è un’arte. E come tutte le arti richiede pratica, abilità, esperienza. È necessario che qualcuno ne tramandi l’esempio e i segreti. Ma soprattutto che ci sia qualcuno pronto a carpirli, a farli suoi, a seguire la scia tracciata dai maestri. Quello che, in fin dei conti, la nostra epoca ha dimenticato. Il trionfo del pensiero unico, delle post-verità così indiscutibili da apparire dogmi incrollabili, del becero conformismo camuffato da politicamente corretto ne sono la tangibile dimostrazione, nonché i sintomi di una piaga ormai quasi inestirpabile. Nessuno ha più l’ardire di dissentire perché mancano i modelli. Le voci che imprimono un graffio sulle coscienze, che non si piegano alla logica del potere e dei secondi fini. Voci capaci di immergersi nella società che le ha prodotte per portarne alla luce il cuore pulsante. Mancano, insomma, i grandi scrittori. Non i funamboli della parola, i top seller che sbancano il mercato a suon di copie prima ancora che il loro testo arrivi sugli scaffali, gli intellettuali incidentali che, tra una cosa e l’altra, si inventano prolifici romanzieri e ispirati poeti. Quelli ci sono sempre stati e sempre esisteranno. Ma quelli che si sporcano le mani di controversie, che vivono per prendere posizione anche di fronte allo spettro della scomodità, del rifiuto, dell’emarginazione. Quelli invisi ai potenti perché irriducibili nel loro scandagliare le storture di questo mondo così complicato. È la penuria di questi vati il grande male del nostro tempo. La penuria di qualcuno che sappia analizzare la società non come collettivo indistinto di entità genericamente accomunate fattori culturali più meno sentiti, ma come somma scomposta e stranamente armonica di singolarità. Un identikit a cui il nostro Vincenzo Consolo rispondeva perfettamente e che lui stesso, a più riprese, invocò come imprescindibile simbolo di civiltà. Perché, per l’autore nativo di Sant’Agata di Militello, lo scrittore ha una missione altissima, quasi sacra, che nessun altro può anche solo pensare di portare a termine.

Eloquente, in tal senso, fu l’intervista rilasciata allo studioso irlandese Daragh O’Connell nel 2004 dal titolo Il dovere del racconto. Tra domande mirate ad approfondire i tratti salienti della sua poetica e indagare la natura del complesso rapporto che sempre lo legò alla natìa Sicilia, una in particolare diede modo al nostro illustre conterraneo di dare una risposta davvero memorabile, rivelatrice non soltanto di quanto nobile fosse la tensione morale e civile che animava il suo agire letterario, ma anche della portata universale di cui la scrittura è investita. E dell’inerzia che, in mancanza di simili personalità, connota drammaticamente l’incapacità di autocomprensione del nostro presente: «Uno scrittore dovrebbe sempre essere contro il potere non, naturalmente, con la militanza politica, perché questa è una stupidaggine. Lo scrittore non ha bisogno di militare, anzi non deve. Lo scrittore è la coscienza critica della società, deve osservare, andare al di là di quelli che sono i segni immediati, per cercare di leggere altri segni, i segni più profondi. La sua perorazione e la sua difesa è quella dell’uomo, l’uomo nel senso totale della parola. Perché la politica si occupa soltanto dell’uomo sociale, lo scrittore si deve occupare dell’uomo non soltanto nella società, ma dell’uomo nella sua complessità, nella sua totalità, dei sentimenti dell’uomo, dei dolori dell’uomo. Nessuna politica si occupa dei dolori dell’uomo, questo lo può fare solo il poeta, lo può fare solo lo scrittore. È la difesa dell’uomo, perché il potere, anche in una società perfetta, ha sempre le sue malignità e non va dall’individuo, non si occupa dell’individuo, non può occuparsi dell’individuo. Di qui la necessità della metafora nella scrittura letteraria, la metafora è una forma di critica, di critica del potere».

La scrittura, dunque, non è una soluzione taumaturgica. Ma è comunque ascolto della sofferenza, lotta inesausta all’ingiustizia, squarcio sull’oscurità che avvolge le piccole, grandi tragedie. E i suoi interpreti – un tempo profeti di cambiamenti ancora troppo in là da venire – paladini degli schiacciati privi di qualsiasi arma che possa riscattarli, persino di una penna. O almeno così dovrebbe essere. Ma è proprio quel condizionale, nell’era dei tuttologi che ingrigisce ogni sfumatura, a turbare il nostro vivere. A lasciare incompiuta una ricerca di senso priva di appigli da cui ricavare conforto. A rendere infertile ogni dibattito. E ogni sopruso un po’ più accettabile.

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