È frequente, in letteratura, specie se si prendono in esame lassi temporali più o meno circoscritti, imbattersi nella diffusione e nel riutilizzo dei cosiddetti “stilemi”. Il termine, inizialmente riferito più agli aspetti linguistici e lessicali che contraddistinguono ogni autore, è passato col tempo ad includere anche la tendenza, in determinati contesti letterari, a ricamare su un comune patrimonio di immagini e di tematiche, ad indicare l’originalissimo incontro tra la personale sensibilità dello scrivente e l’ingombrante sovrastruttura rappresentata dai predecessori. Sarebbe riduttivo, tuttavia, limitarsi a considerare gli stilemi come semplici frutti di un vasto serbatoio retorico cui attingere in maniera più o meno sostanziale. Dietro la persistenza di uno stilema risiede, spesso, la cifra morale di un intero popolo, la presentificazione di un trascorso storico che riaffiora con prepotente naturalezza, un orizzonte valoriale e sentimentale che non può essere soppresso nemmeno dinanzi al filtro della finzione. Basti pensare alle ambientazioni minuziosamente parigine in cui prendono vita le vicende narrate dai grandi romanzieri francesi del XIX secolo o all’immaginario condiviso da una certa letteratura americana, da J.D Salinger agli scrittori propriamente appartenenti alla Beat Generation. Anche in Sicilia, a ben guardare, sono diverse le suggestioni condivise che potrebbero essere citate. Ma una di queste, certamente, spicca per la sua ricorrenza e per la sua indiscussa centralità: il tema della famiglia. O, per meglio dire, della saga familiare.

Dalla metà dell’800 ad oggi, infatti, le epopee di intere genealogie siciliane hanno occupato uno spazio rilevante nell’economia della narrativa nostrana. Nobili, spietate, disgraziate, irrimediabilmente in via di decadenza, disperatamente aggrappate ai loro privilegi o alle loro minute certezze nella sventura. Pur nella loro fisiologica diversità, un fil rouge le apparenta tutte sotto la stella di un destino ineluttabile e condiviso, nell’occhio di un ciclone di eventi che si rivela spesso più forte delle loro resistenze, nel vorticoso e minaccioso progredire della storia. A I Malavoglia (1881), naturalmente, con il loro periglioso ondeggiare tra mesti regressi e asfissianti avanzate, con il loro equilibrismo tra lutti e debilitanti tentativi di risalita, spetta il titolo di capostipiti del genere. Un genere che, inevitabilmente, ha conosciuto negli anni successivi la sua consacrazione, sviluppandosi spesso su più volumi e più media, vincolato alla necessità di esprimere con la pienezza di storie familiari sviluppatesi nell’arco di decenni. A cominciare da I Viceré (1894), mastodontico romanzo derobertiano incentrato sulle trame ordite dagli Uzeda di Francalanza per mantenere i propri privilegi all’indomani dell’Unità d’Italia e passaggio intermedio di una trilogia che comprende L’Illusione (1891) e L’Imperio (1929). Passando poi per Il Gattopardo (1958) e per una produzione tutta al femminile che negli ultimi anni ha scalato di slancio le classifiche di vendita. Non si incardinano forse su questa scia romanzi come Il bastardo di Mautàna (1994) di Silvana Grasso, crudo e disincantato ritratto di don Giachino Verderame e della sua discendenza in una Sicilia rurale, selvaggia e iniqua della prima metà del ‘900? O, ancora, pièce teatrali come Le sorelle Macaluso (2014) di Emma Dante, struggente panoramica sull’effetto che le durezze dalla vita possono avere sui rapporti tra cinque ragazze, divenuta poi un film nel 2020 diretto dall’autrice medesima? E che dire del fenomeno I leoni di Sicilia (2019) – e del suo seguito L’inverno dei leoni (2021) – attraverso il quale Stefania Auci ricostruisce l’ascesa inarrestabile della dinastia dei Florio a Palermo, anch’esso destinato a diventare uno sceneggiato televisivo?

Ma a cosa si deve questa specifica attenzione per il tema familiare? La considerazione quasi sacrale del siciliano per il proprio nucleo di affetti è un fattore che non va sottovalutato, ma che, al tempo stesso, non può assurgere a spiegazione totalizzante. C’è, piuttosto, la consapevolezza che l’indagine generazionale, unita alla potenza del mezzo letterario, può rivelare la natura profonda della nostra isola, il dramma dell’alternanza generazionale che promette e non mantiene, lo scottante terrore della disillusione. L’immobile trasformismo che abbranca il susseguirsi dei decenni. La somiglianza dell’antico e del nuovo, gemelli inconcludenti solo apparentemente in contrasto.

Diceva Tolstoj che «tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice lo è a modo suo». Ma anche l’infelicità, in fondo, ha una radice comune. Anche l’amarezza, l’oscurità, la rassegnazione. La lotta titanica contro le avversità. Il rimorso per le scelte sbagliate, la machiavellica predisposizione alla malizia. Lo stingersi a cordone di protezione. Perché la famiglia è come un vetro riflettente. E la Sicilia, da secoli, non può fare a meno di specchiarvisi dentro.

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