Ospite dell’Università etnea, di fronte a un’ampia platea di studenti, il giornalista e scrittore bresciano racconta il processo di trasformazione in copione dell’opera di Victor Hugo andata in scena, con regia di Franco Però, al Teatro Stabile di Catania

[dropcap]«[/dropcap][dropcap]I[/dropcap]l primo aspetto da considerare nel passaggio dal romanzo al testo teatrale è se a compiere l’adattamento sia un drammaturgo o un romanziere». Esordisce così Luca Doninelli, all’incontro avvenuto nell’aula Magna dell’Università di Catania, dove il giornalista bresciano ha spiegato il percorso che ha compiuto nella riscrittura per il teatro di una delle opere più importanti di Victor Hugo, “Les Misérables”, andata in scena allo Stabile di Catania con la regia di Franco Però. «Io appartengo alla seconda categoria –prosegue –sono abituato, infatti, a lavorare da solo mentre il drammaturgo deve sempre tenere in considerazione molteplici opinioni. Non va mai dimenticato, difatti, che sul palcoscenico agiscono forze diverse: registi, attori, scenografie, luci per cui quasi mai l’operato dell’autore resta intatto. Come prima cosa allora ho cercato di rispondere a due domande: chi è il pubblico di oggi e qual è quello che devo portare a teatro». Questa riflessione nasce dal fatto che il romanzo è uscito dall’immaginario collettivo perdendo i riferimenti noti alle generazioni precedenti e spingendo, di fatto, lo scrittore a una riflessione più complessa. È un fiume in piena Doninelli, d’altra parte il teatro è il suo mondo: autore, critico, saggista, docente; nel 1983 è stato uno dei fondatori della compagnia “de Gli Incamminati” insieme a Giovanni Testori, a cui dedicò dieci anni più tardi un lungo libro-intervista seguito dal più recente “Una gratitudine senza debiti. Giovanni Testori, un maestro”, dove emerge a chiare lettere il forte legame di amicizia che a lungo ha unito i due. Appurato dunque l’obiettivo di riscoperta per lo spettatore della forza dell’opera, Luca Doninelli inizia la stesura: «Se avessi dovuto realizzare questo lavoro trent’anni fa l’avrei sviluppato come un duello fra Jean Valjean e Javert, un episodio fra l’altro presente nel libro. Alla fine però per non tradire lo scopo prestabilito ho deciso di raccontare la storia dell’ex carcerato, adattando le 1.900 pagine dell’edizione in folio francese nelle 90 del copione».

UN DRAMMA BATTESIMALE. «L’opera –precisa Doninelli– inizia con dei candelabri e si conclude con una vestina bianca tolta da una valigia, entrambi simboli del cattolicesimo». La sacralità permea il testo sin dal dono che, nelle prime pagine, Monsignor Myriel fa al protagonista: offrendo a Jean Valjaen le posate e i candelabri d’argento dei quali precedentemente lo aveva derubato, il prelato riscatta la sua anima e gli concede una seconda possibilità. D’allora l’uomo dedicherà la sua vita agli ultimi della società: «Per la prima volta nella letteratura – sottolinea lo scrittore – buoni e cattivi si mescolano, pensiamo ad esempio ai tremendi Thénardier che hanno due figli straordinari come Gavroche ed Éponine. Per comprendere le condizioni dell’uomo nella società industriale francese di quel tempo occorre osservare la crisi di valori etici e civili nella quale si trovano ingabbiato questi personaggi».

PAROLE. Il teatro è azione, ritmo per cui il giornalista è stato costretto a ricorrere a compromessi rispetto al testo di partenza, in special modo per quanto riguarda la dimensione introspettiva: « Dal momento che Jean Valjean è una figura molta taciturna, diventerà più eloquente sono sul finale del libro. Ho dovuto quindi ampliare le sue battute attingendo ad autori come Dostoevskij, Joyce e Barthes nonché alla terza persona presente nel romanzo. Non bisogna mai dimenticare che ci troviamo di fronte a due generi diversi fra loro, ecco allora che un personaggio come Cosette, fondamentale nel romanzo dove rappresenta il simbolo dell’infanzia maltrattata e del riscatto umano, sulle tavole del palcoscenico scompare necessitando nell’adattamento di una verve maggiore. Di contro Éponine che nel plot costituisce una figura di raccordo, quella che in gergo viene definita tinca, a teatro emerge con tutta la sua forza». La dimensione teatrale inoltre deve tenere in considerazione diverse variabili fra cui la stessa durata della rappresentazione, ecco perché molti passaggi o figure secondarie racchiuse nel testo sono state rimosse.

SUCCESSI. A dispetto delle feroci critiche avanzate da Baudelaire e Flaubert, “I Miserabili” ottenne uno straordinario successo di pubblico, non solo in Francia ma anche nel resto d’Europa dove già dall’anno successivo alla sua pubblicazione, avvenuta nel 1862, fu tradotto in parecchie lingue. Questa versione teatrale, andata in scena pochi giorni fa al Teatro Stabile di Catania non è di certo la prima trasposizione: cinema, televisione, teatro e perfino il musical, celebre quello firmato dal compositore Claude-Michel Schönberg insieme al librettista Alain Boublil del 1980, hanno attinto a piene mani al capolavoro hugoniano. «La definizione più bella data allo scrittore bisontino – conclude Doninelli– è quella di Jean Cocteau, il quale affermava “Victor Hugo era un pazzo che credeva di essere Victor Hugo”. Io vi assicuro che leggendo il libro si percepisce pienamente questa geniale follia, la stessa presente in Dostoevskij e Manzoni. Questi autori non solo non si preoccuparono mai della censura e dei premi letterari, ma riuscirono ad affrontare nelle loro opere problematiche che gli stavano particolarmente a cuore. A prescindere dallo spettacolo, che può piacere o meno, riterrò compiuta la mia missione se alla fine lo spettatore andrà a leggere il romanzo perché una civiltà che si lascia sfuggire opere come “I Miserabili” o “I Promessi sposi” ha smarrito le proprie coordinate. Buona visione, dunque, per chi andrà in teatro ma soprattutto buona lettura».

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