«Io sono Ahmed. Ogni tanto mi fermavo e me lo ripetevo, perché non stava scritto da nessuna parte. Per otto anni abbiamo vissuto in Libano senza documenti: carta d’identità, passaporto, tutto ci era stato tolto una volta scappati dalla guerra in Siria».

La storia di Ahmed, 34 anni sposato con Fatima (entrambi nomi di fantasia) e padre di quattro figli non comincia così, tra bombe, fuga e violenze. Comincia in un Paese che ama profondamente, con una laurea e un lavoro da topografo. Poi, però, Zang Tumb Tumb: la guerra cancella ogni sua prospettiva, portando con sé soltanto dolore. La sua vita subisce allora una battuta d’arresto, per poi riprendere lo scorso anno a Santa Venerina, il piccolo Comune etneo che a novembre 2021 ha accolto lui e la sua famiglia, grazie ai corridoi umanitari voluti da una rete di volontari che porta avanti questo progetto di accoglienza. Così, abbiamo deciso di incontrare Ahmed, Fatima, i loro figli e la nonna Amina, mamma di Fatima, nei locali dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, parte di questa rete di accoglienza. E alle immagini dei tanti conflitti che dilaniano il presente abbiamo sostituito la loro testimonianza e i loro occhi commossi.

«Scappato di prigione, non avevo né passaporto né carta d’identità. Ma senza documenti non puoi lavorare, andare in ospedale, mandare i tuoi figli a scuola e soprattutto spostarti, perché se ti beccano o ti arrestano o ti deportano in Siria»

IL RIFIUTO DELLE ARMI. «Ho scelto di essere un uomo che non prende in braccio le armi: è per questo che ho dovuto lasciare il mio Paese», ci racconta Ahmed. «Non volevo far parte dell’esercito e mi hanno arrestato come oppositore politico. Ho vissuto per sette mesi in prigione, subendo violenze di ogni tipo. Finché non sono scappato». Lì per lì ha cercato riparo in un paese vicino, il Libano, ma da quel momento la situazione ha iniziato a peggiorare, tanto per lui quanto per Fatima. Fatima, 27 anni, sorriso generoso e occhi grandi, non trattiene le lacrime quando parla di come è cambiata la sua vita: «Non capivo bene cosa fosse la guerra. Me ne sono resa conto quando hanno ucciso mio padre davanti ai miei occhi. Allora con la mia famiglia sono fuggita in Libano, dove ho conosciuto Ahmed. La vita con lui è cominciata ad andare avanti, ma poi è subentrata la fatica di essere una famiglia in Libano». Purtroppo il Libano, le fa seguito il marito, «non riconosce a noi siriani il diritto d’asilo, il che rende la vita lì molto difficile, soprattutto se non hai documenti. Io, una volta fuggito dalla prigione, non avevo né passaporto né carta d’identità. Senza un pezzo di carta non puoi lavorare, non puoi andare in ospedale, non puoi mandare i tuoi figli a scuola e non puoi spostarti, perché se ti beccano o ti arrestano o ti deportano in Siria. Per otto anni, quindi, abbiamo vissuto così, nascosti. Piano piano sembrava che ci volessero convincere di non essere più degli umani…».

Le condizioni di Daraa, una città della Siria, a 11 anni dallo scoppio della guerra (Ph. Mahmoud Sulaiman, Unsplash)

L’ARRIVO IN SICILIA. Stanchi e preoccupati per i loro figli, i due hanno preso la scelta più disperata, quella che qui, da questa parte di mondo, per nostra fortuna fatichiamo a capire; una scelta che può compiere solo chi ha come unica alternativa morte e violenza: imbarcarsi verso l’Europa. Il loro viaggio di speranza era appena cominciato, però, quando Fatima e Ahmed sono stati riportati indietro dalla guardia costiera libanese. E proprio nel momento in cui hanno pensato di aver toccato il fondo, una luce si è affacciata nelle loro esistenze. «Abbiamo conosciuto l’Operazione Colomba, che ci ha presentato alla Comunità di sant’Egidio: tramite loro abbiamo ottenuto il visto per arrivare in Italia in sicurezza. Poi, in Sicilia, abbiamo trovato tante braccia aperte. Loro ci vogliono bene, ma noi gliene vogliamo ancora di più, perché adesso grazie a loro siamo tornati a sperare. Quando sei in guerra, invece, il futuro non esiste più». La coppia ripete più volte le parole «grazie» e «famiglia», anche se non nasconde la tristezza per il fratello di Fatima, rimasto in Libano, e per i tanti siriani che stanno ancora soffrendo. «Nessuno merita di patire a causa delle guerre», è il loro commento.

«Chi arriva qui si porta dietro un bagaglio di esperienze pesanti. Per questo ci siamo spesi in attività di sensibilizzazione in tutte le scuole del Comune. Perché siamo convinti che l’accoglienza si dimostri nella relazione»

L’ACCOGLIENZA DELL’ASSOCIAZIONE. «Il nostro compito – ci spiegano intanto Laura e Michela Lovato, una mamma e una figlia che fanno le volontarie per l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII – è quello di accompagnare le persone come Fatima e Ahmed verso la piena autonomia entro circa due anni». La famiglia è sostenuta in ogni aspetto, dalla conoscenza della lingua all’inserimento socio-lavorativo, e per riuscire a offrire questo supporto ci sono voluti più di due anni di preparazione, tra studi e impegno sul territorio, come sottolinea a sua volta Virginia, una volontaria addetta alla questione scolastica. «Chi arriva qui si porta dietro un bagaglio di esperienze pesanti, e al suo arrivo deve trovare occhi accoglienti. Per questo ci siamo spesi in attività di sensibilizzazione in tutte le scuole del Comune. Perché siamo convinti che l’accoglienza si dimostri nella relazione».

Nonostante le difficoltà, se il bilancio a oltre un anno dall’arrivo della coppia è positivo, il merito è quindi dei rapporti di fiducia e della rete di aiuti che entrambi hanno trovato in Sicilia. «Adesso i vostri bimbi sono felici?», chiediamo loro. Nella stanza risuonano le risate innocenti dei loro figli, che scorrazzano mangiando biscotti al cioccolato. Tra le fossette di quei sorrisi le bombe non fanno più rumore, gli aerei militari hanno spento i motori, i carri armati si sono fermati. Il futuro ha il loro sorriso, per Ahmed, per Fatima e per tutti noi.

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