«Da sempre sento di avere una particolare inclinazione per le periferie: al loro interno, del resto, non ci sono differenze di classe sociale o di nazione. Puoi trovarle ovunque: dentro casa, dietro l’angolo, nella sofferenza del nostro amico più caro. La periferia non è una dimensione geografica, ma umana». Le parole di don Antonio Giacona – da qualche mese cappellano del carcere di “Piazza Lanza” a Catania – non sono soltanto sfoggio di profonda sensibilità caritativa, ma anche una preziosa lezione sul significato autentico della parola “missione”. Proprio la sua esperienza, che lo ha portato per 30 anni tra le strade del Cile, rappresenta la più eloquente testimonianza di come non sia importante il luogo del nostro impegno, ma lo scopo. «Tutta l’umanità – continua – ha in comune la medesima risorsa: un cuore colmo di desiderio. Non c’è uomo o donna che io abbia conosciuto in qualsiasi parte del mondo che non riveli di possederlo. Il mio compito è accompagnare coloro che di quel desiderio vogliono scoprire l’origine e l’oggetto, e la pienezza del suo compimento». Con questo spirito il prete catanese, tornato a casa sul finire del 2017, non ha esitato quando si è presentata l’occasione di proseguire la sua opera all’interno dell’istituto penitenziario.

«Sono edificato e commosso dalla reazione che tutti i lavoratori dell’istituto hanno messo in campo e dal dialogo costruttivo instauratosi di fronte alle sfide di questo momento difficile»

PRESENZA E CONTATTO. «Prima della mia nomina – ci rivela – avevo cominciato come volontario su invito di alcuni amici che già da tempo vi operavano. Spinto, per di più, da una suggestione personale: il mio amico e “padre”, don Francesco Ventorino, aveva speso gli ultimi anni del suo ministero proprio come cappellano del carcere. Per me, in un certo senso, questa esperienza si pone come desiderio di una nuova modalità di sequela della sua paternità e, con l’aiuto della grazia di Dio, di feconda continuità». Eppure, questa stessa continuità è stata bruscamente messa alla prova dall’avvento della pandemia di Covid-19: «La situazione d’emergenza che stiamo vivendo – continua – ha avuto come conseguenza l’esclusione dal carcere dei tanti operatori che vi svolgevano attività fondamentali. Soltanto io, che adesso ricopro un ruolo istituzionale, ho mantenuto il privilegio di poter continuare il mio operato, insieme con i membri della direzione, il corpo di polizia penitenziaria, i medici, gli psicologi e gli psichiatri». All’assordante silenzio dell’assenza, dell’anomalo isolamento che per la prima volta fa sentire dall’esterno i suoi effetti sui detenuti, ha però fatto da contraltare una nuova consapevolezza: «Con gli sforzi congiunti di coloro che sono rimasti ci siamo impegnati per supplire il più possibile a tutte le attività che riempivano la consuetudine delle giornate in carcere, ma soprattutto per intensificare la nostra presenza e il ritmo del lavoro, per venire incontro alla ineludibile necessità di ritrovare i contatti improvvisamente sospesi. Sono edificato e commosso dalla reazione che, indistintamente, tutti i lavoratori dell’istituto hanno messo in campo e dal dialogo costruttivo instauratosi di fronte alle sfide di questo momento difficile. Penso, ad esempio, allo sforzo fatto per consentire ai detenuti, ora impossibilitati a svolgere i normali colloqui in presenza, di fare telefonate con gli avvocati e videochiamate con i familiari».

«Il virus non mi ha limitato. A differenza degli altri parroci, durante la Settimana Santa, indossando guanti e mascherina ho potuto benedire ogni cella»

RICOMPORRE LE FERITE. Ma è proprio nei momenti apparentemente più bui che ci si rende conto di quanto la luce sia difficile da oscurare: «Paradossalmente, il virus non mi ha limitato in alcun modo. Durante le celebrazioni per la Settimana Santa ho potuto fare più di quanto sia stato possibile ad ogni altro parroco. Con guanti e mascherina, e rispettando tutte le norme sulla distanza, ho avuto l’occasione di visitare ogni cella, di donare un ramoscello d’ulivo, di fare la stessa benedizione eucaristica che il Papa ha svolto il 27 marzo in una Piazza San Pietro deserta. Sono stati gesti brevi e sobri, certo: ma a cui tutti hanno potuto partecipare, cogliendo e ricevendo la speranza che solo la presenza di Gesù morto e risorto può assicurare». Essere pastori, tuttavia, non significa attenersi solo alla liturgia ma «piegarsi sui bisogni delle persone: da quelli apparentemente futili, come una confezione di tabacco, fino al desiderio di riconciliazione attraverso la confessione. Per un detenuto il motivo principale di sofferenza non è la perdita della libertà, ma il distacco dai propri cari. Così, poter rivolgere un messaggio ai propri affetti genera in loro una gratitudine che può apparire sproporzionata, ma è la tenerezza di Gesù che li raggiunge attraverso quella piccola risposta ad una loro precisa domanda». A volte, poi, accade qualcosa di eccezionale: il rimarginarsi di cuori spezzati. «Di fronte a violente fratture familiari – madri o mogli costrette a denunciare i propri cari – posso testimoniare che non sempre la separazione è l’ultima parola. Alla fine prevale sempre il desiderio di ricongiungersi perché tutti, in fondo, desideriamo amare ed essere amati in maniera pura e costruttiva, desideriamo pace e felicità. Ma non ne siamo capaci, abbiamo bisogno che qualcuno ci insegni, e questo qualcuno può essere solo Dio. Negli ultimi mesi l’ho constatato una volta di più: c’è una realtà più potente che conduce al bene, è entrata nella storia una volta per tutte, e permane in essa. Una realtà di cui tutti abbiamo bisogno. Per tutta la vita e per tutta la storia».

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