PRZEMYŚL, POLONIA. La terra di confine è fertile, ricca. Arata con ampi solchi. Gli alberi spogli come scheletri. A 80 chilometri di distanza da qui c’è Leopoli, una delle poche città ancora sicure in Ucraina. Dall’altra parte, 15 chilometri più in là, Przemyśl, una piccola e antica città polacca. La frontiera sembra un casello autostradale. In molti l’hanno attraversata a piedi, ammantati nelle coperte. Incontro tre bambini che hanno passato il confine da soli, mentre i loro genitori tornavano indietro, verso l’inferno. Una giovane donna, magrissima, sta tremando. I suoi brividi non sono solamente di freddo, ma di paura. Di incertezza. Le chiedo di raccontarmi la sua storia, ma lei non vuole, è esausta. La sua sofferenza si è trasformata in silenzio. E in quel silenzio aspetta che qualcuno, un conoscente o un familiare, venga a prenderla. Come lei, altre venti o trenta persone. Tutte donne. Quando si scappa dalle bombe e non si dorme da quattro giorni la speranza diventa quella di un aiuto oltre il confine. Un conoscente o un amico da chiamare, o anche un volto sconosciuto che per te diventerà come un amico, un fratello, un genitore. Queste persone esistono. Li vedi lì con un cartello in mano, mentre offrono un passaggio a coloro che passano il confine. Alcuni di loro hanno dovuto chiedere dei giorni di ferie. Eppure quando gli chiedo perché lo facciano, la loro risposta è che quando ti trovi di fronte a persone che soffrono e hanno perso tutto il loro è un gesto normale. Mi chiedo se la guerra abbia risvegliato una “normalità” fino ad ora del tutto assopita. Di fronte a tutto questo non posso che augurare loro, a me e a tutti gli europei, di ritrovare ragioni ed energia affinché questo desiderio di accoglienza diventi sistematico, permanente.

Improvvisamente, la parola pace, che sembrava qualcosa di conquistato per sempre, appare come un lusso fragile, quasi inarrivabile

Vedo tre giovani scendere da un taxi e mettersi gli zaini in spalla. Chiedo loro dove siano diretti. Mi rispondono che stanno andando a lottare per la libertà del loro Paese. Improvvisamente la parola libertà, spesso usata con destrezza da equilibristi per stabilire i freddi limiti tra la propria e quella del prossimo, acquisisce un significato concreto. Salgo sull’autobus che, gratuitamente, porta i nuovi arrivati ​​alla stazione di Przemyśl. Quasi tutti, appena si siedono si addormentano. Dorme anche Sophia, una bambina di sei anni che viaggia con sua madre, Masha. Anche lei mi dice che vuole solamente riposare e fare una doccia. Ha lasciato Kiev cinque giorni fa per dare a sua figlia un futuro sicuro. Alla frontiera, così come nei rifugi improvvisati, la speranza ha la forma degli occhi dei bambini. Solo loro sembrano al sicuro. E mentre i più piccoli corrono e giocano, i più grandi consolano le madri che hanno lasciato i mariti in Ucraina e che piangono pensando che non li rivedranno mai più. Chiedo a Masha se ora che ha messo piede sul suolo polacco si sente più tranquilla. Risponde solo un po’, perché Putin può attaccare anche l’Unione europea. Cerco di rassicurarla. Ma quando le dico che è in territorio NATO, lei mi parla di una possibile guerra nucleare. Improvvisamente, la parola pace, che sembrava qualcosa di conquistato per sempre, appare come un lusso fragile, quasi inarrivabile. Tutto a un tratto, la vita che sembrava una nuvola di fumo nel nulla, diventa densa. La necessità di vivere una vita buona arde negli occhi chiari di Masha che si riempiono di lacrime silenziose. Arriviamo alla piccola stazione ferroviaria di Przemyśl. All’ingresso incontro Mijail, uno dei pochi uomini fuggiti. Laura, una volontaria che ha guidato per dieci ore dalla Germania, si offre di ospitarlo nella sua chiesa. Mikhail, che non è mai stato in quel Paese, decide il suo futuro in tre minuti. Improvvisamente diventa evidente che non siamo padroni del nostro destino.

Sembra di essere dentro un documentario della Seconda guerra mondiale. Improvvisamente la Storia cessa di essere un ascensore di progresso

Entro nell’atrio della stazione. Decine di persone vanno e vengono, ma non ci sono urla o lamentele. I bambini dormono per terra mentre viene offerto un pasto caldo. Si sente parlare russo, ucraino, polacco, tedesco, inglese. I volontari spiegano dove si può riposare e, soprattutto, facilitano i trasferimenti. Polina è appoggiata al muro. Ha 20 anni, mi racconta della sua stanchezza. Mi spiega di essersi rifugiata in uno scantinato, che non è pronta a prendere tutte le decisioni che la attendono e che vorrebbe rivedere i suoi genitori. Improvvisamente, la libertà cessa di essere indeterminatezza assoluta e diventa desiderio di recuperare i legami con chi si ama. Esco verso i binari, un treno è appena arrivato, decine di persone trascinano pacchi e valigie. Mi sembra di essere dentro un documentario della Seconda guerra mondiale. Improvvisamente la Storia cessa di essere un ascensore di progresso. Le tragedie si ripetono come se facessero parte del nostro patrimonio genetico.

Przemyśl Główny, 28/02/2022 (foto Pakkin Leung CC By 4.0)

Esco dalla stazione e mi dirigo alla scuola numero 5. La palestra è stata trasformata in un enorme dormitorio. Sulle brandine sono appoggiate delle coperte e vengono anche distribuiti dei pasti caldi. Daryona, 19 anni, è appena arrivata. Il rumore di una porta che si chiude la spaventa: crede sia una bomba. Quando scende la notte vede aerei che non esistono. Come molti, mi confessa, pensa di vivere un incubo dal quale si risveglierà. Suo padre e i suoi amici sono rimasti a Kiev. Mi dice, senza arrabbiarsi, che questo è un mondo stupido, senza umanità. Improvvisamente tutte le analisi passano in secondo piano e le parole di Daryona si trasformano in un invito, in un richiamo drammatico che mi spinge a rispondere, affinché mi faccia carico di lei e di tutta la sua famiglia.


Questo articolo è disponibile anche nella versione originale in spagnolo su páginasDigital


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