Se si ascoltano con attenzione i nostri cantautori degli anni Sessanta, in particolare quelli della cosiddetta “scuola genovese”, si può ravvisare un grande legame con il jazz e il Sudamerica, e non solo con la Francia degli chansonnier. Pensiamo a Gino Paoli, Luigi Tenco, e poi a Sergio Endrigo, Lucio Dalla, Paolo Conte. Un legame che si è andato perdendo con il tempo e che soltanto di recente Gino Paoli ha tentato di ravvivare nell’incontro artistico con il pianista Danilo Rea. A tentare di riallacciare suoni, colori mediterranei e rimandi alla tradizione jazzistica di Bill Evans e Chet Baker con la canzone d’autore è anche Dino Rubino con il suo nuovo album Gesuè.

Il brano che dà il titolo all’album è un omaggio: «Gesué è il nome di mio padre. Non è stata una cosa premeditata ma da qui è nata la voglia di mettere su un progetto»

Il tempo e il sogno, due caratteristiche fondamentali che si consolidano in pagine importanti della canzone d’autore, sono gli elementi portanti dell’album del pianista e trombettista di Biancavilla. Undici tracce che sono un flusso continuo di lirismo e di emozioni, velate dalla malinconia del bandoneon di Daniele Di Bonaventura e da un sax bluesy. «Daniele, come Piero Delle Monache al sax e Marco Bardoscia al basso li ho scelti proprio sulla base delle sonorità che andavo a ricercare», sottolinea il musicista etneo una volta indicato come l’erede di Enrico Rava, ma che da tempo alla tromba ha preferito i tasti bianchi e neri di un pianoforte. «Ultimamente ho ripreso a suonare la tromba», sorride. «Proprio un brano del nuovo disco, Diego, lo suono dal vivo con la tromba. Diciamo che, a differenza dal passato, porto la tromba sul palco e quando e se mi va la riprendo».

Gesuè, il brano che dà il titolo all’album, è anche un omaggio. «Gesuè è il nome di mio padre», spiega Rubino. «Non è stata una cosa premeditata, è capitato. Solitamente, dopo aver scritto un brano, vado in studio, lo registro e solo dopo, in un secondo momento, decido il nome da dargli. In questo caso è stato il contrario. Ero a casa e appena finito di scrivere il brano mi è venuto in mente mio padre. La sensazione è stata così forte e così chiara che non ho esitato un attimo nella scelta del nome. Da qui, la voglia di andare in studio e di metter su un progetto». L’altro brano simbolo di quest’album è la cover di Un giorno dopo l’altro di Luigi Tenco, che rafforza il parallelismo fra la tradizione melodica italiana e il contemporary jazz. «Tenco è un autore che ho sempre apprezzato: sia per le sue melodie, molto vicine al jazz, sia per i testi poetici e malinconici. Un giorno dopo l’altro l’ho scoperto molti anni fa e mi sono sempre ripromesso di inciderlo. È stato proprio l’ultimo brano che abbiamo registrato». Le piccole cose è semplicemente poesia, dove le note sostituiscono le parole. Il lirismo del sax di Delle Monache caratterizza Far Away. In Figarò la melanconia diventa struggente. A spazzare via questo velo di tristezza interviene Dr. Jekyll and Mr. Hide, in cui acustico ed elettrico si contrappongono e atmosfere da colonne sonore film anni Sessanta riempiono di colori forti e psichedelici l’impressionismo sonoro della formazione di Dino Rubino.

Dino Rubino

L’artista catanese assieme al suo compagno di avventura Marco Bardoscia sono coinvolti nel progetto “panTǔk”, una sinergia tra l’agenzia di management Pannonica e l’etichetta Tǔk Music di Paolo Fresu che hanno unito le forze al fine di moltiplicare le opportunità di crescita e sviluppo dei propri talenti emergenti. «Ne fanno parte anche la pianista Sade Mangiaracina (anche lei siciliana) ed il batterista e multistrumentista Nanni Gaias», sottolinea Rubino. «È una iniziativa importante che tende a sviluppare e promuovere gli artisti, mettendo in moto un circolo virtuoso che sfrutti al meglio le potenzialità offerte dalla pubblicazione del disco e dall’attività live di modo che possano beneficiarne reciprocamente. I primi risultati si vedono: questa estate suonerò a Umbria Jazz e il tour per promuovere Gesuè è pieno di date fino a dicembre».


Dal 22 al 24 aprile farà scalo al Monk di Catania, del quale lei è una delle “anime”.

«Un successo che è andato oltre le aspettative», si meraviglia ancora. «Come jazz club ha avuto un riscontro di pubblico che non mi aspettavo neanche io: ogni concerto “sold out” e più repliche».

La rinascita sembra avvicinarsi, nonostante i tamburi di guerra.
«Per due anni siamo rimasti tutti fermi. Riprendere a suonare, a programmare le serate al Monk, è davvero ritornare a vivere. Suonare è fondamentale per un musicista, sia per la sua vita artistica sia per quella quotidiana, umana».

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