Vincenzo Collura, detto Cecé, potrebbe sembrare un nome fra tanti. Se consideriamo, poi, il contesto letterario, la sua rilevanza potrebbe apparire persino minore. Eppure, c’è stato un momento nel quale alla sua identità corrispondeva il profilo di un sicilianissimo, arguto e buongustaio commissario di Vigata. Proprio così: prima che Camilleri scegliesse di dare al suo baffuto e brizzolato protagonista il nome di Salvo Montalbano, doveva essere il buon Cecé il personaggio destinato a diventare il poliziotto per eccellenza. Fermarsi a considerarlo oggi, a quasi trent’anni dal debutto letterario della e a quasi venticinque da quello della sua fortunatissima iterazione televisiva, viene quasi da sorridere. Da dispiacersi bonariamente per un personaggio pronto a spiccare il volo e poi rimasto nelle retrovie proprio sul più bello. Ne è piena zeppa, la letteratura, di simili figuranti. Ma Collura doveva essere uno con la pelle piuttosto dura. Un teatrante testardo e volitivo, che nemmeno la fama smisurata dell’illustre collega è riuscito ad affossare del tutto. Pochi sanno, infatti, che sono due i commissari nati dalla penna dello scrittore di Porto Empedocle. E che i due, addirittura, nella finzione si conoscono pure. Non potendo più vestire i panni di Montalbano, Collura ne è quasi diventato un gemello diverso, un fratello minore, capace comunque di ritagliarsi uno spazio d’autonomia nel mondo. Un mondo a tratti decisamente lontano da quello di Vigata, ma ugualmente torbido e intricato, magnetico e meschino. Un mondo intitolato Le inchieste del commissario Collura.

La prima puntata, “Il mistero del falso cantante”,
pubblicata su “La Stampa” del 13 luglio 1998.

Pubblicati in volume per la prima volta nel 2002 da La libreria dell’Orso e poi riediti da Mondadori nel 2007, i racconti di Camilleri debuttarono per la prima volta sul quotidiano La Stampa nel 1998. Otto puntate con cadenza settimanale – eccetto la seconda che uscì a 14 giorni di distanza dalla prima – in cui Cecé abbracciava finalmente, tardivamente il suo pubblico. Suo malgrado: perché Collura, di dare sfoggio delle sue qualità da inquirente, non è che avesse proprio voglia. Rimasto infortunato a seguito di una delicata operazione di polizia, aveva deciso di ristabilirsi staccando la proverbiale spina e trascorrendo il periodo di riabilitazione a bordo di una nave da crociere. E certo, da buon segugio, Cecé doveva immaginare che non tutto sarebbe filato liscio come l’olio. Perché? Perché a mettere lo zampino nella sua presunta vacanza era stato proprio l’amico Montalbano, il quale si era prodigato affinché il collega ottenesse presso l’imbarcazione la funzione di commissario di bordo. D’altro canto, si sa, se c’è una regola non scritta – o forse sì – che vige nell’opera di Camilleri è che dovunque si trovi un poliziotto la disgrazia e il mistero sono esattamente dietro l’angolo. Una legge a cui Collura non era stato in grado di sottrarsi, lui che, per ammissione del suo stesso autore, aveva sempre preferito la terraferma piuttosto che le insidie del mare. Ben presto, infatti, le sue amene previsioni di riposo si erano trasformati in casi ingarbugliati da sciogliere. Tresche amorose dai risvolti violenti, scomparse inspiegabili, tesori andati apparentemente perduti e persino dicerie fantasmatiche avevano finito per togliergli il sonno in cabina. Gialli dai contorni pirandelliani, sempre sul crinale scivoloso che si frappone tra realtà e finzione, soggetti a giravolte e capovolgimenti repentini, talvolta persino capaci di dare la sensazione di essere nient’altro che messe in scena studiate ad arte. Persino Collura, che della ragione avrebbe dovuto essere il più eloquente emblema, a più riprese era stato indotto dagli eventi a chiedersi se la sua permanenza sulla nave si fosse davvero verificata. Un tema, quello onirico, tanto caro al maestro di Porto Empedocle. E che rende Montalbano e Collura ancora più letterariamente imparentati.

E chissà quanto ancora si sarebbero potuti avvicinare questi singolari fratellastri di penna se le sceneggiature basate sulle peripezie di Cecé si fossero effettivamente tradotte in una trasposizione su schermo. Ciò che rimane di questa peculiare vicenda da laboratorio di scrittura è, forse, niente più che un affezionato omaggio. Uno scherzo di gusto citazionista come se ne vedono tanti in ambiente letterario. O forse, chissà, il gusto di chiedersi e scoprire per un attimo un universo di idee parallelo. Un what if dallo sfondo tutto siciliano. O la semplice, divertente, ma anche un po’ malinconica, ribalta di un gregario.

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