Ferragosto è alle porte e gran parte degli abitanti della Trinacria non vede l’ora di rilassarsi in una delle nostre meravigliose spiagge. Difficile, per un isolano, farne a meno. Ma allora perché un detto popolare lo indica come qualcosa che può tradire? Perché, nell’amarlo senza confini, al tempo stesso lo temiamo? E perché, per ogni Provvidenza che affonda, ci sentiamo ugualmente un tutt’uno col suo abbraccio?

Il DNA dei siciliani assomiglia fortemente a quello di un essere marino, naturalmente avvezzo a districarsi con maestria tra le onde. La loro pelle, come piante in cerca di nutrimento, ha un insaziabile bisogno di luce solare: non solo per ottenere la classica tintarella, ma anche per alimentare il loro umore, uno spirito positivo nei confronti della vita. Sarebbe forse concepibile l’esistenza di un isolano che non contempli un rapporto intimo, simpatetico, intenso con il mare che lo circonda? Probabilmente no. A dimostrarlo non è soltanto la frequenza con cui aneliamo a correre in spiaggia anche quando squarci di bel tempo fuori stagione lo consentono, ma soprattutto la storia, la nostra attitudine, i nostri prodotti culturali. Ogni concetto che associamo al piacere, alla bellezza, alla serenità ha come possibile risvolto la nostra inclinazione verso quell’infinita e cristallina distesa. Ma come spesso accade, la Sicilia è anche il regno dell’ambivalenza, dove un pensiero può abbracciare senza difficoltà il suo esatto contrario, dove la realtà si mostra con volti mutevoli e imprevedibili. Ecco, allora, che il mare non è solo il luogo della pace dei sensi ma anche quello della diffidenza; non solo le braccia aperte in cui tuffarsi con ottimismo, ma anche la presenza da cui si vuole fuggire con ansia.

«Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai faraglioni, perché il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un modo tutto suo di brontolare, e si riconosce subito al gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe, e par la voce di un amico». Lo stralcio di testo appena riportato è uno dei più celebri all’interno de I Malavoglia, e segna un momento sentitamente contemplativo della vicenda di ‘Ntoni. Ed è assolutamente vero che il mare appartiene a tutti quelli che sanno stare in silenzio ad aspettare un suo segno: ma proprio per questo, proprio per la sua universale disponibilità, paradossalmente il mare non appartiene a nessuno. È libero, impetuoso, straniero rispetto a noi: è l’elemento che ha dato scaturigine alla vita ma può anche essere un pozzo disperato, mortale. Lo sanno bene proprio i pescatori verghiani, figli svezzati e nutriti da quello stesso mare che poi, affondando la Provvidenza, li ha traditi amaramente. Lo sanno bene le antiche civiltà che codificarono il mito del vortice marino di Scilla e Cariddi. Lo sa bene Montalbano, che sulla spiaggia ci vive e ci fantastica, che con lui parla e ha un contatto davvero fisico. Non è infrequente, infatti, che alla fine di ogni indagine il commissario decida di fare una nuotata rituale, utile per scaricare quelle tossine di orrore e sofferenza che un mestiere come il suo comporta. Ma non è forse altrettanto frequente che il mare restituisca corpi senza vita in preda alle correnti? Che la spiaggia sia il teatro di efferati delitti? O che speranzosi migranti, oggi, come lo siamo stati noi ieri, si appendano al sottile filo della sorte, col gancio di una preghiera, ogni qualvolta si vedono costretti ad affrontarlo?

Nessuna metafora è più pregnante di significato per definire la Sicilia: il mare è coesistenza di vita e morte, innocenza e responsabilità, giovinezza ed età adulta. Bellezza e minaccia. Sul mare abbiamo costruito i nostri successi e da quello stesso mare abbiamo visto il susseguirsi di colonizzatori ed invasori conquistare questa terra così ambita. Il mare è la Sicilia stessa: lo si ama e lo si fugge, lo si esplora ma spesso non lo si capisce, sembra sempre a portata di mano e contemporaneamente senza confini. E proprio come quando si viene delusi dalla propria terra, le ferite che fanno più male sono quelle inflitte da chi o cosa ci è più vicino. Non è un caso che la saggezza popolare, nelle persone di anziani pescatori, marinai o specialisti della subacquea, sia solita trasmettere il motto secondo cui “lu mari è trarimintusu”. Ma nonostante questa consapevolezza il distacco rimane impossibile: così ci armiamo della fiducia che una boa sarà al posto giusto nei momenti di difficoltà, che la nostra imbarcazione sosterrà la tempesta che vuole destabilizzarla. Che il mare, riconoscendoci come suoi figli siciliani, ci mostri non più l’incombenza di figure minacciose o il promemoria di una furia che può strapparci la felicità, ma il suo sorriso più smagliante. Per disgregarci per qualche secondo tra le sue acque, e sentirci appartenenti, intrecciati ad un’identità più forte del timore. Un tutt’uno con lui e i suoi piacevoli capricci.

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