«I vostri figli, i vostri uomini sono fuori e non pensate nemmeno a come sarà umiliante rivederli. Io sì, io ci penso e non voglio. No, non voglio incrociare sguardi compassionevoli: “Guardala la pazza, è uscita. Quella che non è riuscita a fare la madre, la moglie, ma che donna mai potrà essere?”». A parlare è una delle protagoniste di “Tutte le cose che ho perso. Storie di donne dietro le sbarre” (Villaggio Maori Edizioni, 2023), libro della giornalista Katya Maugeri che cerca di gettare luce sulla condizione delle detenute nelle carceri femminili. In Italia, le strutture di questo tipo si trovano a Trani, a Pozzuoli, a Venezia e a Roma. La giornalista ha scelto la Casa Circondariale di Rebibbia femminile per raccogliere le testimonianze contenute nel libro: «Mi ero già occupata del mondo carcerario – spiega Maugeri – con “Liberaci dai nostri mali”, in cui avevo intervistato solo uomini. Ma sentivo l’esigenza di dare voce a quelle donne di cui non si parla. Rappresentano il 4% del totale dei detenuti e la loro è una fragilità al quadrato».

In che senso le donne in carcere vivono una fragilità al quadrato?
«Le moderne carceri, costruite nell’Ottocento e nel Novecento, erano maschio-centriche: le donne che commettevano reati venivano rinchiuse nei manicomi. La donna valeva talmente poco che era impensabile attribuirle persino la capacità di reato. La società poi è mutata ma la struttura è rimasta pressoché uguale. Ad esempio, nella maggior parte degli istituti non c’è il bidet. Sulla donna in carcere grava poi un giudizio che si somma alla pena: una carcerata è giudicata anche una cattiva madre. Preciso che non voglio fornire giustificazioni, né le donne che ho intervistato vogliono farlo. Questo non è un libro romantico o femminista ma un libro su uno spaccato di società. Se la detenzione è ancora un tabù, lo è a maggior ragione quando riguarda le donne».

Pensi che un sistema carcerario più aperto alle differenze di genere possa aprire a una riflessione più ampia? 
«Credo proprio di sì, soprattutto può accendere un faro sulla gestione della genitorialità. Non si può parlare solo di maternità, ma anche di paternità. In questo modo si potrebbero trovare soluzioni che abbiano meno impatto possibile sui figli dei detenuti preservando il concetto di famiglia». 


Come mai, da giornalista catanese, hai scelto di raccontare la realtà del carcere di Rebibbia?
«All’inizio il libro avrebbe dovuto includere anche tre storie che ho raccolto a Catania. Tuttavia i responsabili delle strutture che ho visitato, e con cui ho collaborato, non mi hanno autorizzato a portarle fuori».

Perché? Si trattava di storie diverse dalle altre?
«No, erano tragiche come lo sono quelle di Rebibbia, e anonime, impossibili da rintracciare. La motivazione per il divieto di usarle nel libro è stata che non sarebbe stato opportuno. La nostra città non è pronta per essere raccontata: mi piace usare il termine “omertosi” perché lo siamo. Io sono stata male sul serio: sia io che le donne intervistate eravamo molto coinvolte emotivamente».

Su quale aspetto dovrebbe dunque focalizzarsi, a tuo parere, il sistema detentivo?
«Alla radice di molte scelte sbagliate ci sono equilibri e contesti sociali che vanno analizzati. Da lì bisogna partire. Il carcere non deve essere punitivo ma rieducativo, come prevede l’articolo 27 della Costituzione. All’interno degli istituti servono più servizi utili a mostrare che esistono alternative. Oggi, dentro le strutture carcerarie le detenute possono impegnarsi in diversi laboratori, ma cosa accade loro quando vengono scarcerate? Quale mondo trovano ad accoglierle? In una delle storie che ho raccontato, una detenuta chiede a un’altra per quale motivo accolga con gioia la notizia della sua prossima scarcerazione. Molte di queste donne vedono il mondo fuori come se anch’esso fosse una prigione. A causa di questo disagio, alcune arrivano persino a compiere gesti estremi e autolesionistici».

In questo libro le donne intervistate non hanno nomi, ma numeri, quelli della cella.
«Il numero di cella ha un peso fisico e psicologico, tra rifiuto e riconoscimento. È un numero transitorio, che prima è stato di altre e dopo sarà di altre ancora. Rappresenta il loro sentirsi senza identità. Così, anziché utilizzare dei nomi di fantasia, ho preferito adottare questa soluzione».

Qual è stata la difficoltà più grande nell’approcciare questo lavoro?
«Lo sforzo empatico. Mi sono immedesimata molto con il loro forte desiderio di amore e di utopia, la loro spinta a vivere e a donarsi e, a volte ingenua, a fidarsi. Di fronte a certi epiloghi ho provato rabbia. Scrivere alcuni capitoli è stato molto doloroso. Ho scelto il titolo  “Tutte le cose che ho perso” perché ciò che perdiamo ci lascia un’impronta indelebile. È una prospettiva: tutti ripartiamo dalle cose che abbiamo perso».

Possiamo riconquistarle?
«Il colibrì della copertina è in volo. Anche un cuore disilluso può battere ancora».

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