«Un paese senza memoria è un paese senza storia e senza futuro», dichiarò Pier Paolo Pasolini in Scritti Corsari riferendosi all’Italia e all’operato dei suoi dirigenti politici. Parole che, dopo cinquant’anni, risultano ancora attuali, e che a volte si riferiscono a un oblio capace di ingoiare perfino le vittime di mafia. È quanto si direbbe accaduto con Lea Garofalo, la cui triste storia viene ora ripercorsa dal giornalista Paolo De Chiara nel suo ultimo saggio, Una fimmina calabrese, edito da Bonfirraro e che riconferma l’attenzione dell’autore nei confronti di temi sociali legati alla criminalità organizzata da un lato e alla legalità dall’altro lato.

Nel libro, infatti, De Chiara decide di ricordare – e soprattutto di indagare – le vicende che portarono la donna calabrese a morire nel 2009 per mano della ‘ndrangheta. La sua storia inizia nel 1974 a Petilia Policastro, quando a metterla al mondo è una famiglia criminale già ben inserita nel contesto ‘ndraghetista: il padre, appena un anno dopo la sua nascita, viene ucciso non a caso da una famiglia rivale, mentre lei a soli tredici anni – com’era già accaduto a tante adolescenti del Meridione cresciute in contesti affini – si innamora di un giovane violento e appartenente alla malavita, di nome Carlo Cosco. Come viene ricostruito in Una fimmina calabrese, Cosco si sarebbe poi trasferito a Milano per occuparsi di traffico di droga per conto dei Garofalo, venendo presto seguito dalla sua innamorata e dalla figlia appena nata dalla loro unione, che avrebbero chiamato Denise.

Circa cinque anni dopo, Cosco e il fratello Floriano (anche lui membro del clan) vengono arrestati durante l’operazione nota come “storia infinita”: è un momento molto duro per Lea, che però le permette di aprire gli occhi e di realizzare che quella vita, in fin dei conti, non le appartiene. Ecco perché da allora in poi decide di intraprende un duro percorso pur di allontanarsi dal contesto mafioso in cui ha vissuto, entrando nel programma di protezione in qualità di collaboratrice di giustizia. Una decisione pesantemente ostacolata dal compagno e dal fratello, che la ‘ndrangheta uccide nel 2005 per intimorirla, ma che non metterà un freno alla determinazione di Lea. De Chiara torna sugli episodi del periodo con cura, spiegandoci i dettagli della situazione e aiutandoci a capire quanto fosse difficile – per una persona abituata sempre e solo a una certa realtà – a guardare il mondo con altri occhi, mettendo in discussione ciò in cui credeva per riscattarsi e trovare in qualche modo la sua strada.

Lo Stato le nega la scorta e lei fronteggia da sola le minacce dell’ex compagno, le difficoltà economiche e l’emarginazione sociale che subisce, dovendo cavarsela da sola perfino quando viene aggredita da un sicario

Nello stesso anno Carlo Cosco viene scarcerato, proprio mentre a Lea Garofalo vengono negate la scorta e ogni forma di protezione, essendo stata giudicata dallo Stato come una testimone inattendibile. Questo si rivela inevitabilmente uno dei momenti più bui per la donna calabrese, che di conseguenza è costretta a fronteggiare da sola le minacce dell’ex compagno, oltre alle difficoltà economiche e all’emarginazione sociale che subisce. Come riporta De Chiara, viene abbandonata a se stessa persino quando viene aggredita da un sicario mandato a ucciderla, a cui riesce a sfuggire per un pelo. Purtroppo, comunque, questa fortuna non si ripeterà una seconda volta: il piano di Cosco viene portato a compimento quando Lea, ormai al verde, si rimette in contatto con lui per discutere del mantenimento della figlia. Il boss ne approfitta e le chiede di raggiungerlo a Milano dove, dopo averla messa temporaneamente a suo agio, riesce a sbarazzarsene per sempre.

Il 24 novembre 2009, Lea Garofalo viene torturata, picchiata e infine uccisa. Del suo corpo, sciolto nell’acido, sono rimasti solo 2800 frammenti ossei ritrovati dopo anni, in seguito alla denuncia avanzata dalla figlia Denise e al relativo processo che condannerà Cosco all’ergastolo. Il funerale viene celebrato solo tre anni dopo, e ad oggi la donna è ricordata come un simbolo della lotta alla mafia, un’eroina capace di sfidare la ‘ndrangheta a qualunque costo, anche se la sua storia non è diventata famosa come altre. Ridurla a una figura da romanzo, però, sarebbe riduttivo, e De Chiara stesso se ne rende conto: ecco perché il titolo della sua opera è proprio Una fimmina calabrese, scelto per restituire alla sua protagonista quel rispetto che le è stato negato in vita, e per raccontare a tutti la verità: Lea Garofalo non è stata una mera vittima del sistema criminale, ma anche e soprattutto una figura schiacciata dalla corruzione italiana, che troppo spesso si limita a commemorare i morti di mafia senza però far nulla per impedire l’ennesima di queste tragiche morti. Un’accusa forte e vibrante, che senza togliere meriti a chi contro la criminalità organizzata lotta da sempre, fa luce su un sistema a tratti ancora imperfetto, e che dovrebbe trovare dei migliori modelli di riferimento.

Lo scopo dell’opera è proprio questo: denunciare un sistema politico che ancora oggi ostacola le donne desiderose di una vita migliore per sé e per i propri figli, rispetto a quella che la mafia ha loro da offrire

Proprio per questa ragione l’autore ha deciso di aprire il saggio con una lettera inedita che la coraggiosa donna calabrese aveva indirizzato al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Una semplice missiva la cui mancata ricezione le è costata la vita. È così che l’autore intende omaggiare ancora una volta Lea Garofalo, riportando alla luce in maniera diretta e cruda il trattamento che l’Italia – volente o nolente, consapevole o meno – le ha infine riservato. D’altronde, lo scopo dell’opera è proprio questo: far emergere certe conflittualità a lungo ignorate, denunciare un sistema politico che ancora oggi ostacola le donne desiderose di una vita migliore per sé e per i propri figli, rispetto a quella che la mafia ha da offrire, e riaprire un dialogo in grado di risvegliare l’interesse collettivo per una catena di storie fatali che andrebbe interrotta il prima possibile.


Una fimmina calabrese di Paolo De Chiara è stato di recente presentato presso la libreria Feltrinelli di Catania, durante un incontro che fra le altre figure di spicco ha visto partecipare l’avvocato Enrico Trantino e il magistrato Sebastiano Ardita, il quale fra l’altro ha curato la prefazione del volume (la postfazione, invece, è a cura di Cesare Giuzzi).

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