Ospite illustre del secondo workshop internazionale organizzato dal Sicilian Post e dalla Fondazione Domenico Sanfilippo editore, lo spagnolo ha tenuto un incontro interattivo sulle domande che devono guidare oggi chi sceglie questo mestiere, fra penna e telecamera

«Qual è la storia? Come la racconto? Quali elementi narrativi inserisco?»: sono le domande guida del giornalismo secondo Fernando De Haro, il periodista madrileno direttore de “La Tarde” che ha dialogato appassionatamente con i corsisti del workshop internazionale “Il giornalismo che verrà”, organizzato a Catania dal Sicilian Post e dalla Fondazione Domenico Sanfilippo Editore.

54 primavere e 30 anni di carriera, Fernando De Haro è un acuto documentarista che negli ultimi sei anni ha viaggiato per alcuni dei luoghi più tormentati del nostro presente testimoniando la persecuzione dei cristiani. “Storytelling: dal reportage tv tradizionale ai nuovi metodi” – questo il titolo dell’incontro in seno al workshop – non è una lezione cattedratica: la prima cosa che fa entrato in aula (l’affezionata aula “Barbara Minutoli” di via Valdisavoia, 9) è scrivere alla lavagna il suo numero di cellulare cosicché gli aspiranti giornalisti possano rispondere in simultanea a quelle tre domande. Primo compito: proporre una storia. De Haro apre WhatsApp e ne legge subito qualcuna fra quelle avanzate: migranti, caporalato, violenza di genere, le idee non mancano e si respira la voglia di imparare e mettersi in gioco. «Sono temi molto discussi, perché ne dovreste parlare? Se la storia non è originale dovete essere originali nel come. Dovete cercare il come, la prospettiva narrativa diversa». Il giornalista spagnolo richiama l’attenzione sulla skill regina fra tutte quelle del buon giornalista: lo sguardo. E per fornire esempi concreti proietta spezzoni di alcuni suoi documentari. «Qui ad esempio volevo raccontare il genocidio dei cristiani alla piana di Ninive, in Iraq, da parte dell’Isis. Tanti ne avevano scritto. Cosa potevo fare io per raccontare la stessa storia? Ho deciso allora di ritornare con 4 rifugiati alle loro case distrutte per fare vedere quello che avevano vissuto e che vivevano tramite i loro stessi occhi e le loro stesse parole». Questo è un esempio di narratore assente (narratore presente e narratore in off, cioè quando interviene ogni tanto, gli altri possibili), ed è anche quello che confessa preferire. «In questi casi bisogna fare tante interviste, una ventina, e ricomporle come in un film per ricostruire la storia. Non siamo quindi presenti, siamo come il regista».

Che il metodo funzioni è evidente dalla sensazione che lasciano le scene realizzate da De Haro: il dramma è vissuto. In gioco, si capisce, c’è il futuro del giornalismo. Internet, infatti, rende immediatamente fruibile qualsiasi notizia: che ruolo ha allora il giornalista? De Haro, avvezzo a riprese e montaggi, collega la scrittura all’arte della cinematografia: «Enseñar, no explicar. Dovete fare accadere le storie. Devono essere film in cui identificarsi, strade in cui camminare, persone da accompagnare. Potevo trattare quella tragedia spiegando in prima persona che il paese è stato distrutto e invece ho scelto di mostrarla, di farla accadere». In tal senso, gli elementi narrativi che non possono mancare sono i volti dei soggetti che, secondo l’ospite iberico, comunicano una cosa importantissima: che anzitutto quella storia esiste. Il mestiere non ha quindi affatto perso il suo ruolo. «È il giornalismo scadente ad essere morto, non quello di qualità». E sprona i corsisti che lo ascoltano coinvolti: «Quando dite che il che cosa raccontare è diventato difficile perché non si può essere originali vi state ammazzando. Allora basta, non scriviamo più, non produciamo più film. È il come racconti che fa la differenza – torna a ripetere -. La differenza la fa che sei tu che racconti. È tutta qui la questione». Come si guarda, come si racconta, come si scrive: ma Fernando De Haro ha offerto ai presenti una lezione in più, come si insegna.

 

 

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