C’è stato un tempo nel quale gli immigrati eravamo noi siciliani, costretti a lasciare le famiglie per raggiungere su un treno della speranza il produttivo Nord. Una lenta deportazione di giovani diplomati e laureati, come la definisce il giornalista Enzo D’Antona fra le pagine del suo romanzo “Gli spaesati”, edito da Zolfo, iniziata alla fine degli anni ’60. Il più importante esodo di massa dopo la grande migrazione dell’Ottocento, in cui i contadini analfabeti andavano in America e di quella del secondo dopoguerra in Germania, Svizzera e nel nord Italia. Un destino che accomuna i ragazzi di una palazzina popolare Unrra Casas, costretti a lasciare un paesino dell’entroterra siciliano per raggiungere, tra gli anni ’70 e ’90, le città del triangolo industriale. I loro destini s’intrecceranno con gli avvenimenti che hanno segnato l’Italia, dagli anni di piombo ai truci delitti di mafia mentre nel profondo sentiranno forte il legame con la loro terra.

Il romanzo pone l’accento su due distinte ondate migratorie verso il Nord. Quali furono le differenze fra la generazione che lasciò la Sicilia nel dopoguerra, rispetto a quella che lo fece dagli anni ’70 in poi?
«Nella prima ondata migratoria i braccianti del Sud andavano al Nord per lavorare come manovali, settore in cui agli inizi degli anni ’70 rappresentavano circa il 90% della forza lavoro, oppure per diventare operai nelle grandi industrie come la Fiat. Erano le stesse imprese a chiedere ai dipendenti di cooptare nuovi lavoratori fra gli abitanti dei loro paesi d’origine. La seconda ondata, che io ho definito dell’emigrazione borghese e che rispetto alla prima è stata raccontata meno, coinvolse per lo più giovani universitari che talvolta abbandonavano gli studi per diventare impiegati pubblici. Spesso però la cattedra o l’ufficio postale cui venivano assegnati si trovava nella provincia, questo significava che ad accoglierli non c’erano più le aggregazioni dei compaesani ma erano soli».

Nasce da questa solitudine lo spaesamento per cui “non si era più né di qua né di là”?
«Lo spaesamento collettivo, proprio degli emigrati di epoca postbellica, lasciò il posto a quello individuale. Per quanto fossero figli della stessa rivoluzione culturale sessantottina questi ragazzi del Sud subirono una sorta di apartheid che li ricacciava nel passato. Come racconto all’inizio del libro, quando il gruppo di amici va in una sala da ballo talmente desueta che avrebbero potuto trovarla in Sicilia. Il libro non è autobiografico ma quell’episodio mi accadde realmente».

Enzo D’Antona

Perché anche lei è stato un immigrato.
«Sì, anche se sui generis nel senso che non avevo né valigia di cartone né di similpelle. Lavoravo come cronista a “L’Ora” di Palermo quando nel 1987 “Il Mondo”, che faceva parte del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, mi propose di venire a Milano offrendomi il doppio dello stipendio. Non fu solo per questo che partii, la città meneghina rappresentava per me un mito letterario oltre ad essere la capitale morale ed economica d’Italia».

Quando ha deciso che avrebbe raccontato tutto questo in un libro?
«Sapevo di voler parlare dello spaesamento di un gruppo di giovani siciliani al Nord ma volevo che queste storie fossero contestualizzate nei grandi avvenimenti italiani, che vanno dalla fine degli anni Sessanta alle soglie di Tangentopoli. Non ho la pretesa di aver scritto un libro di storia perché in vent’anni sono successe anche tantissime altre cose importanti che non ho riportato. Ho voluto dare alla narrazione anche un taglio antropologico e sociologico che s’inserisse fra gli episodi aprendo uno squarcio nella realtà, come quando Milziade prende servizio al Palazzo di Giustizia nel giorno del rapimento di Moro o Angioletto, zio di Fifo, manifesta alla Marcia dei quarantamila della Fiat: uno spartiacque nel mondo industriale con il quale iniziò il declino dei sindacati e si puntò al riflusso del privato».

Si partiva per raggiungere le zone più ricche dell’Italia dove l’appellativo più cortese per il siciliano invasore era “terrone”.
«Un marchio dispregiativo che è stato accettato supinamente per anni. Come dice Liborio nel libro: “Più ci sentivamo esclusi e più diventavamo orgogliosi di essere siciliani”. Questo atteggiamento non lo potrei mai giustificare ma posso comprenderlo, perché l’arrivo di una tale massa di persone ha indubbiamente posto problemi e disagi nelle città, un po’ come accade oggi quando arriva un nuovo vicino di casa che viene dall’Afghanistan o dalla Siria. Quello che disapprovo e ritengo incomprensibile è come a un certo punto quel cartello “non si affitta ai meridionali” si sia fatto partito politico. Ecco perché ho voluto inserire la nascita della Lega, perché credo che sia stato un altro momento decisivo per il peggioramento della democrazia in Italia».

Come suggeriva lei, oggi tocca agli immigrati extracomunitari ricoprire il ruolo di “outsider” che una volta toccava ai meridionali. Crede che abbiamo imparato a gestire la diversità?
«Dobbiamo partire dal presupposto che non si tratta di un blocco omogeneo perché provengono da nazionalità e culture diverse e purtroppo in questi anni non siamo riusciti a mettere in piedi strumenti di integrazione utili. Si è creato un clima ostile dal quale potrebbero forse uscire più facilmente se una volta arrivati in Italia imparassero subito la lingua. Non sono molto speranzoso. Credo che quando molti inizieranno a farcela, diventando professionisti ed entrando nel tessuto vivo della società verrà fuori il vero razzismo».

Per il Sud le cose non sembrano essere cambiate in meglio. Cos’è stato fatto concretamente dagli anni in cui è ambientato il romanzo?
«La questione del Mezzogiorno è uscita da tempo dall’agenda politica nazionale, l’ultima volta che se ne è parlato è stato nell’emergenza mafia. La classe dirigente italiana non è stata in grado di avere una visione unitaria del Paese. Oggi il divario tra Nord e Sud è più grande che mai, da una parte abbiamo il Veneto e la Lombardia che insieme creano una macro-regione tra le più ricche d’Europa dall’altra il Sud, con indicatori economici simili a quelli della Grecia. Negli ultimi 10 anni dal meridione sono partiti due milioni e 700 mila persone, questo significa che ogni ora 15 persone – di cui di 6 giovani entro i 29 anni e 2 laureati – si trasferiscono definitivamente al Nord».

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