«Abbiamo accolto il 1989 come l’anno che finalmente aveva compiuto il destino del mondo. Pensavamo che dopo i due totalitarismi, la democrazia sarebbe stata l’unica religione civile superstite, ma non è stato così: essa non è una creazione universale ma del solo Occidente, come ci hanno dimostrato in seguito le torri gemelle e il terrorismo jihadista. I sovranisti, poi, oggi la attaccano dall’interno, svuotandola dei suoi principi liberali e separandola quindi dalle tutele dello stato di diritto, dal bilanciamento dei poteri, dalla libertà di stampa. Il rischio è quello di trovarci una democrazia che somiglia alle conchiglie che a volte si trovano sul bagnasciuga: lucidissime e splendenti, ma al loro interno l’organismo sta morendo». Quando chiediamo a Ezio Mauro cosa rimanga, trent’anni dopo, delle speranze che hanno fatto sognare l’Europa dopo la caduta del muro di Berlino, la sua analisi ci pone di fronte a una realtà lucida e amara. Del resto, in un momento in cui muri ideologici (e non solo) vengono nuovamente eretti in varie parti del pianeta, viene da chiedersi se la nostra memoria storica sia troppo corta o se gli strumenti d’interpretazione della stessa non siano stati tarati a dovere. In ogni caso, vale la pena addentrarsi in un’analisi critica e ha senso farlo con gli strumenti più adatti al nostro tempo. In questo senso, il reading teatrale Berlino. Cronache dal muro, che si terrà mercoledì 27 novembre al Teatro Stabile di Catania si pone come un’occasione preziosa per approfondire queste pagine di storia contemporanea attraverso la viva voce del giornalista piemontese già direttore de La Stampa e La Repubblica.

“Berlino. Cronache dal muro” è parte integrante di una vera e propria opera multimediale che ha visto nascere un reportage giornalistico, un libro e un film. Interagire con una platea teatrale, tuttavia, apre a nuove possibilità. È questa una possibile frontiera del giornalismo?
«Diciamo che si tratta di un linguaggio in più che si apre al giornalismo. Lo spettacolo ha due registri: il primo è la storia del Muro dalla sua costruzione nel ’61 fino alla caduta nell’89 e attraversa gli anni del dopoguerra, della guerra fredda, fino ai movimenti ad Est che hanno portato al crollo. Il secondo è il racconto, mese per mese, del 1989, l’anno “dei miracoli”, che rese possibile l’impensabile. Io sarò in scena, ma non pretendo di fare altro che il mio mestiere di giornalista. Al mio fianco invece ci sarà un attore, Massimiliano Briarava, che ha curato l’allestimento scenico insieme a Carmen Manti. Sullo sfondo ci saranno delle immagini tutte giocate sul tema del “doppio”: il confronto Est-Ovest, la città separata, l’Europa divisa, la guerra fredda che porta Usa e Urss a confrontarsi sui due lati del muro. Si tratta, insomma, di un modo di raggiungere con linguaggi diversi, pubblici diversi. E poi il teatro ha la capacità di far passare le emozioni dal palco alla platea e farle tornare indietro».

La locandina dello spettacolo

Negli anni a cavallo della caduta del muro lei ha raccontato la Perestrojka ed è stato corrispondente di Repubblica da Mosca. Come fu vissuto l’evento in Russia?
«Visto da lì sembrava ancora più incredibile. Anche perché parliamo di un paese in cui la memoria della guerra con la Germania era molto viva. In quegli anni accadeva ancora che le spose subito dopo la cerimonia nuziale andassero in abito bianco a portare il mazzo di fiori sulla tomba del milite ignoto, poiché ogni famiglia aveva almeno un caduto in guerra. Quindi l’idea che l’impero dell’Est si stesse disgregando, lasciando intravedere sullo sfondo la riunificazione tedesca e la rinascita di una grande Germania, appariva semplicemente inconcepibile. Eppure il 1989 rese possibile anche questo».

Quando le fu chiaro che il muro sarebbe crollato?
«Circa un mese prima, durante l’ultima visita a Berlino Est di Gorbačëv, che seguii insieme agli altri corrispondenti. Era il quarantesimo anniversario della DDR e un episodio ci fece capire che eravamo ben oltre gli scricchiolii. Mentre i reparti militari sfilavano sul palco d’onore, con Honecker che salutava col pugno alzato e Gorbačëv con la mano aperta, ci fu una manifestazione di giovani che venne caricata dalla polizia ad Alexander Platz. Alcuni riuscirono ad arrivare in fondo al viale della parata militare e si sentirono delle voci urlare: “Gorbačëv aiutaci, rimani con noi anche solo un mese”. A quel punto Wojciech Jaruzelski, segretario del Partito Operaio Polacco mise una mano sul braccio di Gorbačëv e gli disse: Michail Sergeevič vi chiedono di salvarli, vi rendete conto che oggi qui è finito tutto?»

«Il web ha migliorato la nostra vita, ma segue la logica del fiume. Un giornale non si limita a mettere in fila le notizie che vi passano, ma costruisce un paesaggio che consente la comprensione dei fenomeni»

La caduta del muro ha segnato un momento fondamentale per l’Europa unita ma ha anche sancito una vittoria per democrazia, la quale oggi sembra però essere in pericolo. In Italia, ad esempio, un movimento nato come anti-castale, oggi al governo, inneggia alla democrazia diretta e propone il web come catalizzatore della volontà popolare. Un web regolato da algoritmi ed in mano ad una manciata di compagnie. Il giornalismo libero può essere un antidoto a tutto questo?
«Il web ha migliorato la nostra vita, cambiando i paradigmi della storia, della geografia e dell’economia, tuttavia, soprattutto nel contesto dei social, esso funziona secondo la logica del fiume, per la quale le metriche che contano sono la velocità di portata e quella di percorrenza. Il risultato è che un saggio di Habermas e la pernacchia di un blogger rischiano di viaggiare incollati insieme per l’eternità. Il giornale, invece, è un’altra cosa poiché, davanti a questo fiume, lascia scorrere le notizie e ne trattiene alcune. Naturalmente si tratta di un compito discrezionale, ma il punto è che queste scelte sono basate su una ricerca di senso: un giornale non si limita a mettere in fila le notizie, ma costruisce un paesaggio che consente la comprensione dei fenomeni. In questo sta la ragione più profonda del nostro mestiere».

La notizia può diventare Storia?
«Sicuramente può diventare storia con la “s” minuscola. Per quella con la maiuscola ci vogliono gli storici, che a volte scrivono pure sui giornali. Dobbiamo però ricordarci che il nostro compito è quello di raccontare in forma giornalistica una vicenda, la quale può essere più o meno importante in una prospettiva storica, ma ricordando la lezione di Nabokov: “soltanto i dettagli e i particolari dei particolari rendono una storia degna di essere letta”. Personalmente credo che questo sia molto vero».

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