Come operose e frenetiche formiche, gli isolani sono abituati a vedere i loro sforzi vanificati, i loro risultati spazzati via come castelli di carte. Ma un impulso nascosto li spinge sempre a ricostruire le loro vite anche contro i pronostici: la dignità, che a sua volta comporta speranza. Un cuore pulsante che, nonostante le circostanze, non ci fa mai smarrire del tutto

Avete mai provato a costruire un castello di carte? Sebbene possa sembrare un semplice passatempo per combattere la noia, la sua edificazione richiede doti non comuni: pazienza, precisione, determinazione e accettazione del rischio. “Che rischio?”, direte voi. Il rischio del fallimento: basta anche solo una carta, una infinitesimale porzione del tutto che sia fuori posto, perché le fondamenta dell’edificio collassino su loro stesse. E anche quando il castello sembra ultimato, scintillante nella sua plastica evidenza, basta un leggerissimo spostamento d’aria per spazzarlo via. Perché spendere impegno e fatica per l’effimera e precaria soddisfazione di aver messo delle carte in equilibrio? Forse non ne vale la pena. Ma non è, l’immagine del castello di carta, curiosamente vicina alla raffigurazione materiale della vita di ogni uomo? Fatta di sudore e frenesia, di attese e delusioni, di rivelazioni e decisioni, che possono risultare vanificate anche solo nello spazio di un mattino? In effetti sì. A ben guardare, poi, questa dissertazione ritrae perfettamente la vita di un siciliano: esposto alle intemperie della storia e della natura, spesso impotente di fronte alla loro furia, cosa spinge un isolano a non abbattersi di fronte al crollo delle carte? Cosa lo convince della speranza di poter giungere in cima, fino all’ultima tessera, anche quando in mano non ha che pezzi di puzzle reciprocamente incompatibili? Per avere una risposta, dobbiamo spostarci in quel di Aci Trezza, dove qualcuno di ben più autorevole ha utilizzato un’altra immagine per descrivere l’essenza siciliana.

È il 1880 quando Giovanni Verga dà alla luce la novella/bozzetto Fantasticheria, vero e proprio laboratorio preparatorio per gli imminenti Malavoglia. A parlare sono un siciliano e la sua amica francese, attratta dal paesaggio, sul cui sfondo, oltre alle bellezze naturalistiche, si stagliano consumate casupole e affannati pescatori. La vita di un intero paese si dipana di fronte a quegli occhi stranieri e vergini, una vita lontana e a tratti incomprensibile per chi in quei luoghi non ha mai respirato quella brezza mista a preoccupazione. Ed è proprio nel tentativo di avvicinare questi due mondi che l’autore/narratore utilizza una azzeccatissima e celebre metafora: quella delle formiche. «Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche? […] Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di panico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori». Sono loro, dunque, la chiave di lettura della condizione siciliana: gli ultimi, gli sconfitti, gli umiliati, gli offesi. Coloro che sembrano vagare privi di meta, in cerca di risposte, che in realtà provano a dimenarsi come animali in gabbia, a sfuggire alle maglie strettissime del destino. La loro vita, il loro paese, si regge sulla fiducia, sulla solidarietà: il dolore si attenua se condiviso. Basta un solo ingranaggio scricchiolante, il venir meno di un solo, minuscolo anello di questa catena solidale per mandare tutto in malora. Qual è, allora, il segreto dei siciliani? Solidarietà. E dignità.

Per questo non smettiamo di costruire castelli di carta, di riformare la fila che ci porterà sani e salvi al nostro formicaio. La nostra forza è la capacità di ritrovare costantemente la via che porta a casa, il saperci riaggregare, con gli altri e con noi stessi, quando sembra smarrita. Una dinamica evidente, prettamente siciliana, che ci riguarda tutti ma che emerge, appunto, nell’osservare i più deboli e la loro voglia di andare oltre l’inevitabile. C’è, come dice bene lo stesso Verga, una sorta di eroico senso della fine negli occhi di chi non ha nulla se non la speranza. Ma siamo sicuri che il pescatore con la pelle arsa dalla calura o il piccolo artigiano che dà vita alla sua arte non possiedano proprio nulla? In realtà, a distinguere un siciliano rispetto alla gran parte del mondo è il possesso di un sentimento esclusivo: quello di sentirsi al sicuro perché a casa. E finché quella consapevolezza non verrà smarrita, finché ci guiderà tra le peripezie dell’esistenza, non ci sarà nessuna forza capace di staccarci dallo scoglio come il palombaro armato di coltello fa con le ostriche. Continueremo ad essere bestioline in balia degli eventi, probabilmente: ma con un cuore pulsante e speranzoso. Sempre pronto a ricostruire il suo castello di carte.

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