Solitamente indicata come emblema del disincanto dello scrittore, l’opera in realtà cela un profondo messaggio di rinascita. Il ritorno alla Casa del Nespolo e la conclusione della vicenda potrebbero farvi pensare all’ideale dell’ostrica in maniera alquanto diversa

Perché la letteratura è così preziosa per la vita di ognuno noi? Una domanda indubbiamente complessa e divisiva, da cui potrebbero scaturire innumerevoli risposte, e tutte decisamente valide: qualcuno potrebbe tirare in ballo quella curiosa sensazione di piacere che si impossessa della nostra mente quando lasciamo che le sue intriganti finzioni ci affabulino. Altri elogerebbero la sua funzione di nutrice della fantasia, altrimenti perennemente prigioniera di un’asfittica routine. Ma se ci fermassimo soltanto a queste gettonate considerazioni, rischieremmo di mancare il bersaglio. Prima di tutto, infatti, la letteratura è salutare. Insegna a diffidare dei distributori di certezze, ad individuare e smontare i meccanismi di falsificazione, a mettere in discussione ogni traguardo raggiunto e la conseguente tentazione di sentirci appagati. È una necessità esistenziale prima ancora che intellettuale. Non sempre, tuttavia, le è stato riconosciuto tale valore e diversi sono stati gli autori bollati di un immobilismo emotivo e artistico del tutto lontano dalla realtà dei fatti. Così Leopardi è stato etichettato come il Pessimista per antonomasia, D’Annunzio come il poeta del piacere sfrenato, Svevo come il goffo cantore degli inetti. A questa rigida classificazione non è sfuggito nemmeno il nostro Giovanni Verga con i suoi Malavoglia.

Generazioni di studenti si sono sentiti dire quanto il nostro illustre conterraneo fosse un burbero conservatore, un uomo disincantato e immalinconito, incapace anche solo di intravedere un barlume di sana speranza in quel mondo amaramente fotografato dalla sua penna. Non c’è possibilità di felicità, o di redenzione, tra le pagine verghiane, almeno secondo una lettura deterministica e preconfezionata, che fa dei cosiddetti “vinti” il paradigma universale dei suoi personaggi. E proprio I Malavoglia sono stati spesso eretti a monumeto di questa presunta incurabile tristezza. Peccato, però, che un’analisi più attenta del finale ci sveli in realtà un Verga meno conosciuto, eppure più autentico, più aggrappato alle utopie che ci rendono uomini. Gli ultimi eventi dell’epopea della famiglia di pescatori ci raccontano sì della morte di Padron ‘Ntoni e della partenza definitiva di ‘Ntoni, ma anche e soprattutto della riconquista della tanto amata Casa del Nespolo, andata originariamente perduta per saldare i debiti accumulati dopo il naufragio della Provvidenza. Così Verga racconta il dialogo tra i familiari e il capofamiglia ormai in fin di vita: «Quando gli narrarono poi che avevano riscattato la Casa del Nespolo, e volevano portarselo a Trezza di nuovo, rispose di sì, e di sì, cogli occhi, che gli tornavano a luccicare, e quasi faceva la bocca a riso, quel riso della gente che non ride più, o che ride per l’ultima volta, e vi rimane fitto nel cuore come un coltello». Padron ‘Ntoni non arriverà a rivedere la tanto amata abitazione: ma questo dato non è l’apice di una catena di drammi, ma l’inizio della rinascita. Tutto, anzi, si conclude con una perfetta circolarità: a riscattare la casa è Alessi, il più giovane dei nipoti, rimasto ostinatamente convinto della bontà dei suoi ideali. Attaccato fin da piccolo al nonno, ne ha assorbito la saggezza – come se rinascesse in lui – e l’ha saputa tramutare in spinta verso il futuro: anche lui si innesta nel solco della tradizione facendo il pescatore ed è proprio con i soldi della sua fatica che il sogno di ricomporre il nucleo familiare disgregatosi può avverarsi. Il sorriso affaticato di Padron ‘Ntoni non è il simbolo dell’estrema illusione frustrata una volta di più dai capricci della sorte: ma il raggiungimento della pace. Di un frammento inalienabile di felicità.

Il riacquisto della casa da parte dei più giovani, la ricomposizione dei rapporti familiari, sono l’inizio di un nuovo ciclo: la strenua ed efficace opposizione al tempo lineare e consumante della modernità. Il cosiddetto ideale dell’ostrica non invita a restare passivamente ancorati al proprio scoglio, ad osservare impotenti la rovina di ciò che ci sta intorno, a raccogliere e raffazzonare ciò che rimane dei cocci. Piuttosto, è il segreto per conservare e progredire: i Malavoglia non tentano appena di riprodurre il paradiso perduto, ma ne costruiscono uno ancora più accogliente, rafforzato nelle sue fondamenta dal ricordo dei dolori vissuti e degli errori compiuti. Essi non ricercano la frenesia della modernità a tutti i costi, l’ignoto trasformismo che ne segnerebbe la rovina definitiva, ma un valore valido per ogni tempo. Perciò, se è vero che personaggi come ‘Ntoni e Lia appaiono vinti dalla loro incapacità di rimanere attaccati a qualcosa che li definisca, dalla loro incapacità di adattarsi, gli altri Malavoglia appaiono come dei sopravvissuti. E questo, nel mondo verghiano, è già un indice di vittoria. Perché una barca può affondare. Ma un’ostrica, sul suo scoglio, è destinata a svettare sopra le onde.

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.