Una fusione tra vita e morte, un abbraccio tra ricordo e dolore, tra speranza e lamento. Così si potrebbero tratteggiare i sentimenti che fanno da sfondo alle manifestazioni religiose in Sicilia. Usanze arcaiche e immaginifiche, a tratti ancora ignote miscele di dottrina cristiana e palinsesti paganeggianti. Già il grande antropologo e folclorista Pitrè aveva acutamente ravvisato nella spettacolarità di queste pratiche – sia che celebrassero un lieto evento sia che commemorassero un accadimento funesto – una vitalità screziata di luttuosità, una sofferente intensità bramosa di compimento. Tra tutte le feste e processioni che caratterizzano la nostra isola, quelle pasquali rivestono un ruolo del tutto peculiare e rappresentano l’emblema della disposizione d’animo siciliana dinanzi alle ricorrenze. In esse, infatti, si condensano secolari riflessioni sul tempo e sulla nostra identità. O almeno è ciò che pensa Gesualdo Bufalino.

Lo scrittore di Comiso, sempre attento osservatore e commentatore dei costumi isolani, una volta ebbe a dire: «A Pasqua ogni siciliano si sente non solo spettatore ma attore, prima dolente, poi esultante, d’un mistero che è la sua stessa esistenza». Siamo, dunque, geneticamente implicati nell’atmosfera pasquale: ancor prima che come occidentali, figli di una storia e di una cultura prettamente cristiana, come siciliani, come esseri umani posti di fronte alla propria fragilità e al proprio coraggio. Nella teatralità della vita di ogni abitante dell’isola, dissimulato e sottile filo che si snoda tra rassegnazione e compromesso, tra lotta e stagnante disperazione, l’atmosfera pasquale lo spinge a riprendere in mano la propria vita, a desiderare un ruolo attivo, partecipe della bontà del mondo e cosciente dell’ineliminabilità del male. Così questa tempesta interiore si manifesta da generazioni in svariate località della Trinacria: basti pensare ai riti di Prizzi, paesino del palermitano dove ogni anno va in scena “Il ballo dei Diavoli”, in cui al ritmo di un’incalzante coreografia le demoniache figure, affiancate dalla Morte, tentano di rapire le anime dei passanti fino al momento in cui degli angeli armati pongono fine al loro malefico agire. È una tensione caleidoscopica, in cui non soltanto vengono a sovrapporsi le sfaccettature del sacro, ma dove trovano posto colori e tessuti di popoli transitati per la nostra terra, sospiri di comunità i cui incontri fanno mascherato capolino ancora oggi, frammenti di storia andata che riemergono mimetizzandosi nell’attualità della festa. Tutto sotteso all’idea centrale della Pasqua: la risurrezione.

Un’idea inseguita come un miraggio, attesa come un oracolo. Dietro la retorica che accompagna le uova colorate e lo zucchero delle colombe, così come l’illusione che il mondo possa finalmente convertirsi al buon senso, l’immagine di qualcosa che travalica la fine ci pervade in ogni momento, raggiungendo il suo culmine proprio nei giorni pasquali. La risurrezione è ciò che la Sicilia agogna perché spesso è stata l’unica forza capace di sostenerla: dai momenti bui della nostra storia ci ha tratto fuori quel fascio di luce che ancora ci rende liberi. Quel mistero che garantisce sempre un nuovo cominciamento a dispetto di ogni termine. Forse, noi siciliani, non capiamo pienamente la natura di questo inconscio. Ma ne siamo attratti perché ne condividiamo la ragion d’essere.

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