Federica Di Martino: recitare Pirandello per combattere la crisi del teatro di oggi
L’attrice è protagonista ne “I Giganti della Montagna”, per la regia di Gabriele Lavia, in scena a Catania fino al 12 febbraio. «Ilse un personaggio etereo ma con una carnalità che brucia per l’Arte»
[dropcap]«[/dropcap][dropcap]T[/dropcap]eatrante, sì, teatrante! Lui no ma io sì, nel sangue, di nascita!» con fiero orgoglio Ilse, protagonista dei “Giganti della Montagna”, rivendica le sue origini d’artista davanti al mago Cotrone. A vestire i panni della Contessa nell’immenso lavoro di Gabriele Lavia, in scena fino al 12 febbraio nel cartellone dello Stabile catanese, è Federica Di Martino. L’abbiamo incontrata per farci raccontare il suo personaggio e la passione per Luigi Pirandello.
Con il ruolo di Ilse ha vinto il Premio Franco Enriquez 2019. Come ha caratterizzato la Contessa?
«Pirandello è il mio autore preferito, ma riconosco che è difficile interpretare Ilse soprattutto nella lettura registica che ne fa Gabriele, perché è un personaggio etereo ma con una carnalità che brucia per l’Arte. I Giganti sono un testo commovente in cui si parla d’imbarbarimento e proprio dalle lettere di quel periodo, tra Pirandello e Abba, emerge come fosse faticoso per lo scrittore fare il suo teatro in Italia. Come se le difficoltà dell’Arte camminassero a braccetto con l’Arte stessa».
I “Giganti della Montagna” sono anche la parabola delle difficoltà in cui da sempre versa l’arte.
«Negli ultimi anni i tagli ai teatri sono stati drastici. Se consideriamo poi la complessa macchina impiegatizia che c’è dietro a ogni Ente, ci rendiamo conto di come le risorse destinate effettivamente alla produzione siano sempre più esigue».
«Oggi, chi è popolare, spesso non ha le capacità per fare questo mestiere. In Italia dovrebbero esserci solo quattro scuole di recitazione, statali e con selezioni rigidissime»
Spesso poi gli spettacoli impiegano volti resi noti dalla Tv commerciale per attirare il pubblico. Che ne pensa?
«Una volta gli attori facevano un percorso di formazione istituzionale, all’Accademia o alla Scuola del Piccolo, e solo dopo lavoravano negli sceneggiati televisivi. La fama, al di là del gusto personale, andava di pari passo con la competenza. Oggi c’è grande confusione, spesso chi è popolare non ha le capacità per fare questo mestiere. Magari fa intrattenimento, ma sono due cose molto diverse».
Non crede che il rischio di così tante scuole di recitazione sia quello di sfornare eserciti di disoccupati?
«Dovrebbero essercene solo quattro, con selezioni rigidissime, ma finanziate dallo Stato. In una scuola privata dove paghi una retta, difficilmente ti diranno che sei un cane e che non potrai mai fare questo mestiere. Nel mio corso eravamo sedici, selezionati su oltre 1.000, la nostra vita non è stata facile: la vessazione era parte integrante della formazione e questo ci ha temprato».
Quando ha capito che nel suo futuro ci sarebbe stato il teatro?
«Un giorno in TV vidi un servizio sull’Accademia d’Arte Drammatica, mi ero appassionata durante gli anni dell’adolescenza alla recitazione grazie a una compagnia di amatori ortonese della quale facevo parte, non credevo però che il mio sogno si potesse realizzare. Poi accadde che a causa di un grave problema di salute i miei genitori mi portarono da uno specialista a Roma, la prima diagnosi fortunatamente era errata ma per uno strano caso del destino lo studio medico si trovava proprio dietro al teatro della “Silvio D’amico”. Lo vidi come un segno. Dopo una selezione molto dura fui ammessa, mi trasferii a Roma e da lì cominciò tutto».
All’ultimo anno conobbe Luca Ronconi che, poco più che ventenne, la scelse per la ripresa del suo “Peer Gynt”. Qual è stata la sua più grande lezione?
«Era un grande maestro, metteva una cura enorme in quello che faceva, ma era anche ironico e distaccato. Quello che mi porto dietro di lui è questo: una grande serietà per quello che faccio ma anche molta ironia».
Nella sua carriera è stata diretta da Patroni Griffi, Però, Barbareschi, Sepe, Michieletto. In che modo hanno influenzato il suo percorso artistico?
«Non saprei dire cosa mi ha lasciato ciascuno di loro, so soltanto che sono la somma di ognuno. E poi c’è Lavia che è indiscutibilmente quello a cui devo di più. È un uomo di una cultura immensa che conosce profondamente questo mestiere. Tutti gli attori dovrebbero fare un’esperienza artistica con lui».
«Ognuno lotta per le battaglie in cui crede con i mezzi che ha: l’arte può di combattere la grettezza dei giganti d’oggi»
Da diciassette anni, lei e Gabriele Lavia, siete partner anche fuori dal palcoscenico. Com’è essere una coppia nella vita e nel lavoro?
«Certamente è un valore aggiunto, anche se molto faticoso. Gabriele da me pretende sempre molto talvolta togliendo anche la patina di tatto che abitualmente usa con gli altri. Da parte mia non so se userei la stessa pazienza nei confronti di un altro regista (ride)».
Nel 2013, grazie al contributo di Dacia Maraini, porta in scena “Cronaca di un amore rubato”, uno spettacolo contro la violenza sulle donne.
«Ognuno lotta per le battaglie in cui crede con i mezzi che ha. Oggi come allora la violenza sulle donne è un tema tragicamente attuale. Credo che il teatro possa contribuire alla sensibilizzazione delle anime, questo è uno spettacolo che ti lascia un segno e ti ricorda che ci sono cose che non devono più accadere».
Il testo muove da un fatto di cronaca, lo stupro di Montalto di Castro, nel quale l’intero paese difese gli stupratori accusando la quindicenne di indossare la minigonna.
«La vicenda mi colpì perché lessi dai giornali che il sindaco del Pd aveva preso 30mila euro dalle casse del Comune per pagare le prime spese processuali degli stupratori. Il teatro come la letteratura, l’arte rende edotti e permette di combattere la grettezza dei giganti d’oggi».
Cosa non deve assolutamente mancare nel suo camerino?
«Da sette anni, una foto di Mariangela Melato che sorride. Mi dà la forza e l’allegria necessaria per andare in scena».
Catania è l’ultima tappa della tournèe, cosa farà dopo?
«Mi mancherà molto Ilse ma da metà marzo riprenderemo “John Gabriel Borkman” di Ibsen per la regia di Sciaccaluga, prodotto dal Teatro di Genova, con il quale staremo in giro fino a metà maggio e poi si vedrà».