È il 1976, Stefano Randisi è all’ultimo anno di liceo quando viene a conoscenza del fatto che Beppe Randazzo, principale esponente del Teatro Daggide di Palermo, è alla ricerca di dieci interpreti per la messa in scena di Ubu re di Jarry. Nei panni di Ubu c’è Enzo Vetrano. Da questo incontro inizia così una carriera lunga quarantacinque anni in cui, l’indissolubile coppia di artisti palermitani si è mossa in lungo e largo fra le pieghe del teatro, indagando testi contemporanei e della tradizione, fra cui Scaldati e Pirandello, accanto a grandi sperimentatori come Leo de Berardinis o all’interno dei circuiti stabili con Le Belle Bandiere. Dopo il debutto dello scorso anno con Lu cori non‘nvecchia, su testi e poesie di Martoglio, Vetrano e Randisi tornano a inaugurare la stagione estiva del Teatro Stabile di Catania. Questa volta con ‘A Cirimonia- L’impossibilità della verità, del drammaturgo palermitano Rosario Palazzolo che sarà in scena al Teatro Verga dal 18 al 27 maggio.

Dopo il Napoli Teatro Festival 2020 ‘A Cirimonia apre la rassegna “Evasioni” al Teatro Stabile di Catania. Che lavoro è stato fatto sul testo?
Stefano: «L’opera nasce dodici anni fa ed è stata interpretata la prima volta dallo stesso Rosario Palazzolo. Devo dire che quando l’abbiamo letta ci ha subito appassionati ma dato che era in palermitano stretto è stato necessario adattarla per il circuito nazionale. Lo stesso lavoro, che per certi versi, abbiamo fatto con Totò e Vicè di Scaldati. Rosario l’ha quindi rimaneggiata e da quel momento noi abbiamo cominciato a lavorare sulla scrittura scenica. La storia scava nella memoria individuale per evocare un fatto, ma nel nostro spettacolo questa verità inafferrabile diventa quasi pirandellianamente una certezza teatrale, che cambia a seconda di chi la racconta e la vive. Questi due personaggi cercano di ricordare qualcosa ma quando toccano il fondo e ne intravedono l’orrore, per la loro salvezza se ne allontanano».

Come coniugate in quest’opera la dimensione del teatro d’attore e della drammaturgia collettiva, al centro della vostra linea artistica?
Stefano:
«Al di là dei diversi modi di esprimere la drammaturgia e la regia la nostra poetica è sempre stata comune. Lo spettacolo è veramente il risultato del contributo di tutti: nostro, in qualità di registi e attori, ma anche dei nostri collaboratori. Le scene e i costumi sono di Mela Dell’Erba e rimandano a una memoria perduta, tutta da ricostruire; le luci suggestive sono firmate da Max Mugnai e la colonna sonora, che evoca brandelli dei nostri ricordi, è di Gianluca Misiti».

Al centro ci sono due figure una maschile, l’altra femminile. Questa volta Vetrano però non sarà il prim’attore.
Stefano: «Ecco, lui ha sempre il ruolo del titolo (ndr ride scherzosamente). Quando abbiamo fatto Riccardo III il protagonista è stato lui, se facessimo Amleto sarebbe lui. In questo caso, per il ribaltamento dei ruoli, giochiamo alla pari anche se, per fortuna, ognuno mantiene le proprie caratteristiche».

Un momento di ‘A Cirimonia

Che valore assume questo spettacolo dopo tanti mesi lontano dal palcoscenico?
Stefano: «È stato già bello trovarsi per le prove come se questa terribile assenza fosse stata solo una parentesi e nonostante tutto sarà bello anche andare in scena. È il caso di dirlo: abbiamo bisogno di lasciarci contagiare dalle emozioni».

Enzo: «Nonostante i miei settantatré anni ho quasi paura. Sì, nei mesi passati abbiamo fatto spettacoli online ma quello non è teatro: è un altro linguaggio più vicino al documentario o al cinema. Mi è mancato stare sul palcoscenico e mi commuove l’idea di sentire nuovamente su di me ogni cosa. Poi, naturalmente, c’è il rapporto con il pubblico, che è fondamentale. Fra l’altro sarà un piacere per noi tornare a teatro anche da spettatori; Stefano ed io andiamo tantissimo a vedere gli altri, ci confrontiamo con loro, li seguiamo perché siamo convinti che ci arricchisca. Alle volte facciamo anche delle trasferte, per Since she, l’omaggio di Papaioannou a Pina Bausch siamo andati a Catanzaro. Io piango spesso. Quando vedo la bellezza sul palcoscenico, in automatico mi esce una lacrima».

A dicembre avete ricevuto il premio dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro. Cos’ha significato per voi?
Stefano: «È stata una grande emozione soprattutto per il valore che ha assunto. Una conferma del fatto che il teatro deve andare avanti anche in un tempo difficile come quello in cui viviamo e l’ANCT è stata lungimirante da questo punto di vista. Non era tanto importante chi fosse premiato, anche se siamo stati felicissimi, ma che quel premio venisse simbolicamente conferito».

A fine anni ’70 siete stati costretti a lasciare Palermo perché il vostro modo di fare teatro era visto con sospetto e siete andati a Bologna, dove ad accogliervi c’è stata la Compagnia Nuova Scena diretta da Leo de Berardinis. Che maestro è stato?
Enzo: «Dei tanti maestri che abbiamo incontrato, Leo de Berardinis è stato il più grande perché è riuscito a farci comprendere fino in fondo la nostra natura. Come fondamentale è stato l’incontro con gli autori della nostra Sicilia, a cui da sempre siamo molto legati, non solo Pirandello ma anche Scaldati. È stato un privilegio mettere in scena tre dei suoi testi: Totò e Vicè, Assassina e Ombre folli. Anche se non abbiamo mai lavorato con lui, quando ci incontrava era un fiorire di poesia, di pensieri alti ma anche delicati quasi da bambino. Ha voluto fortemente che facessimo Totò e Vicè, del quale abbiamo realizzato oltre duecento repliche. L’abbiamo portato in tutta Italia, in Cina e continuiamo a proporlo perché è uno spettacolo senza tempo. Fra l’altro per tutto questo mese sarà trasmesso sul canale YouTube dall’Italian Cultural Institute Melbourne».

A pochi mesi dal trasferimento dell’archivio Scaldati alla Fondazione Cini di Venezia, Melino Imparato, suo storico collaboratore, ha scritto una dura lettera contro l’incapacità di Palermo di conservarne la memoria.
Enzo: «Franco è stato uno dei più grandi geni del Novecento italiano. Dei suoi settantatré testi, ne sono stati pubblicati solo otto. Molti di questi sono scritti a mano o con la sua Lettera 22, alle volte usava il bianchetto e i fogli si appiccicavano l’un l’altro per cui diciamo che è una fortuna che adesso le sue opere siano a Venezia perché altrimenti sarebbero rimasti qui all’incuria. Certo è doloroso che Palermo l’abbia lasciato andare via ma è un fatto principalmente politico».

Si è tanto parlato di cambiamenti nel settore. Quale pensa sarà il futuro del teatro?
Enzo: «Innanzitutto, spero che la mancanza di quest’ultimo anno faccia apprezzare ancora di più il teatro e poi mi auguro che gli attori diventino più veri in scena, che si godano il momento riconquistato a fatica ma soprattutto che aumenti la qualità».

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