L’attore e regista milanese, ospite alla Scuola Superiore di Catania per la rassegna Porte Aperte, ripercorre i suoi più grandi successi a teatro, ci svela il legame con lo scrittore agrigentino e ci consegna un ricordo della grandezza di Turi Ferro

[dropcap]«[/dropcap][dropcap]S[/dropcap]ono nato per errore a Milano, ma sono siciliano di Catania». Esordisce raccontando le sue radici Gabriele Lavia, in occasione dell’evento “Discorsi di teatro, discorsi di vita” promosso all’interno della rassegna Porte Aperte. Sul palcoscenico con lui due interlocutrici di tutto rispetto: Lina Scalisi, Vicepresidente del Teatro Stabile di Catania e della Scuola Superiore, dove si è svolto l’incontro, e Laura Sicignano, Direttrice del TSC. «Mia nonna – prosegue l’artista – aveva una bellissima collezione di libri di Luigi Pirandello, ciascuno dei quali sulla prima pagina riportava una dedica: “Al mio adorato Gabriele”. Ne “Il gabbiano” di Cechov sottolineò addirittura tutte le battute di Konstantin. A quel tempo ero solo un bambino ma è impressionante la sua lungimiranza». Un legame speciale quello dell’attore con la nonna, paragonabile solo al grande amore che lo unisce da sempre allo scrittore agrigentino, del quale ha interpretato e diretto diverse opere fra cui il recente successo de “I giganti della montagna”. «Nel dramma – spiega alla numerosa platea – Pirandello affronta il tema profondo del Teatro visto attraverso una compagnia di reduci. Si dice sia incompleto ma non è così. Il testo che ci è stato tramandato finisce, infatti, con le battute “Ho paura, ho paura”; le ultime parole scritte da Pirandello poco prima di morire. A differenza di Shakespeare e del suo “essere o non essere”, il drammaturgo siciliano ha, infatti, declinato in tutti i modi possibili il concetto di “essere o sembrare”. Questo strano autore espressionista, futurista, la cui grandezza è paragonabile solo a quella dei greci, ha una modernità unica che non ritroviamo in altri scrittori. È superiore addirittura a Bertolt Brecht, nonostante la grandezza drammaturgica di quest’ultimo».

«Se dovessi scegliere quale dei miei spettacoli sia il migliore, direi “Vita di Galileo”. Purtroppo non l’ho più potuto riprendere a causa degli alti costi: trentacinque attori, musiche scritte appositamente per lo spettacolo e suonate dal vivo sono un lusso che non ci si può più permettere se non per periodi limitati»

AMARCORD. In una continua digressione fra passato e presente, Lavia ripercorre ironicamente il suo legame con il teatro: «Un giorno mio padre decise che ci avrebbe portato a vedere il “Cyrano de Bergerac” a Palermo. Le linee ferroviarie erano state bombardate durante la guerra, così per arrivarci usammo un bimotore. Il palcoscenico del teatro Biondo visto da lontano era piccolissimo, io a quel tempo avevo solo tre anni e a differenza dei miei fratelli mi annoiai molto. Finita la commedia, mio padre ci portò nei camerini. Bussò e un signore con una vestaglia rossa ci aprì, fu allora che nel perfetto italiano che era solito parlare ci disse: “Bambini, il signore è il grande Gino Cervi”». Se il primo incontro con il teatro fu poco coinvolgente, in breve le cose cambiarono. I pomeriggi divennero l’occasione ideale per seguire le prove della Compagnia – da cui si sarebbe poi originato il Teatro Stabile di Catania –  la quale era solita riunirsi nel grande salotto di casa sua in via Carrubbetto. È affascinante sentirlo parlare di filosofia, mitologia e teatro, ma anche di attualità: «L’Europa ha due capitali, Atene e Lampedusa; da quest’ultima arriva la grande migranza che per destino ineluttabile trasformerà la nostra razza stanca e dalle gambe corte in una meravigliosa popolazione nera con gli occhi azzurri, coi capelli ricci e biondi o neri e lisci. Anche se probabilmente non la vedrò, sono certo che saremo tutti più belli e intelligenti. D’altra parte siamo tutti migranti, mia nonna di cognome faceva Martinez de la Rosa, nipote fra l’altro del più grande autore romantico spagnolo».

Su questo doppio binario familiare e artistico confessa che vorrebbe portare in scena “Il piacere dell’onestà” per dare il giusto peso al protagonista o interpretare, prima di diventare troppo vecchio, “Re Lear”, di cui ha già pronta la regia. «Se dovessi scegliere quale dei miei spettacoli sia il migliore, in questo momento l’alternativa sarebbe fra “I giganti della montagna” e “Vita di Galileo” anche se credo che alla fine sceglierei quest’ultimo. Purtroppo non l’ho più potuto riprendere a causa degli alti costi: trentacinque attori, musiche scritte appositamente per lo spettacolo e suonate dal vivo sono un lusso che non ci si può più permettere se non per periodi limitati». Con una nota di amarezza osserva come oramai il teatro sia diventato solo una complessa macchina burocratica che poco ha a che fare con l’arte.

 

Lina Scalisi, Gabriele Lavia e Laura Sicignano durante un momento della serata.

«Questa è un’epoca che privilegia cinema e televisione, è più facile che nasca un grande sceneggiatore che un grande drammaturgo»

TEMPI MODERNI. A proposito di drammaturgia contemporanea aggiunge: «Questa è un’epoca che privilegia cinema e televisione, è più facile che nasca un grande sceneggiatore che un grande drammaturgo. In passato, soprattutto nella drammaturgia anglosassone, ci sono stati autori di grande spessore e forse un giorno sarà il momento giusto per tornare a scrivere, ma ad oggi l’ultimo grande resta Pirandello». Prosegue nella sua narrazione raccontando la meticolosa cura posta nel realizzare il copione perfetto, un retaggio che si porta dietro da anni e che gli ricorda Giorgio Bassani suo docente di storia del teatro; di come arrivi alle prove a tavolino con tutta la regia pronta per poi sistematicamente cambiarla e dell’inaspettata scelta di trasformare il suo spettacolo, “L’uomo dal fiore in bocca”, nato dal mix di diverse novelle pirandelliane, in un film.

« Strehler diceva sempre che Turi Ferro era un attore fisico, ed era vero. L’ho diretto una volta nel “Tito Andronico” e ricordo che fece una cosa che mi rimase impressa nella memoria: usò un mantello di lana bianca come se fosse un bastone di legno, fu meraviglioso»

LA MEMORIA DEI GIGANTI. L’ultimo dramma del maestro agrigentino è stata un’ardua prova fisica oltre che artistica, insieme all’attrice Nellina Laganà, che nello spettacolo veste i panni della Sgrigia. Il nostro intervistato ripercorre quelle intense giornate: «Durante le prove mi sono rotto il braccio e una gamba e non ho potuto provare. Quando ho saputo dal direttore Escobar che il teatro Strehler era tutto esaurito, mi sono fatto forza e sono andato in scena. Probabilmente sono stato aiutato da mia nonna che mi ha tenuto la mano sulla testa dal Paradiso ma anche da una medaglia di Papa Giovanni che Nellina mi regalò e che da allora porto sempre con me». Veramente toccante è infine il ricordo di Turi Ferro, al quale ha dedicato nello spettacolo la canzone che l’attore siciliano cantava in Liolà: «È stato il più grande Cotrone che io abbia mai veduto nella mia vita. Non avete idea, credo sia la cosa più bella che abbia mai fatto. Strehler diceva sempre che Turi era un attore fisico, ed era vero. L’ho diretto una volta nel “Tito Andronico” e ricordo che fece una cosa che mi rimase impressa nella memoria: usò un mantello di lana bianca come se fosse un bastone di legno, fu meraviglioso».

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