«So di che colore è la sua cartellina e che forma ha, eppure non riesco a trovarla!». Cerca spasmodicamente il copione de Il sogno di un uomo ridicolo, Gabriele Lavia, mentre parliamo del suo debutto al Teatro Stabile di Catania, che da stasera fino al 2 aprile vedrà in scena l’attore, regista e sceneggiatore milanese classe 1942. Sebbene la novella di Fëdor Dostoevskij lo accompagni da tutta la vita, Lavia sente infatti ancora oggi la necessità di rivedere qualche parola o qualche frase spulciando le pagine di quello che è uno dei suoi cavalli di battaglia. Anzi, come precisa lui, di quello che «al momento è un cavallo, vedremo se diventerà anche di battaglia. E, soprattutto, se la battaglia la vinceremo».

È un rapporto indubbiamente viscerale, quello che lei ha con Il sogno di un uomo ridicolo: un’opera che la vede ora, nella doppia veste di attore e regista, affrontare un grande sforzo fisico e d’interpretazione.
«Devo dire che questo è il testo della mia vita. La prima volta lo lessi a 18 anni, di fronte a degli amici fraterni. In seguito Giancarlo Menotti mi chiese di portarlo a Spoleto, e da allora è sempre rimasto con me. All’epoca, in scena, a rappresentarmi c’erano delle statue in gesso con una camicia di forza, che successivamente furono dipinte d’oro e vendute a un night club, dove si trovano tuttora. Evidentemente fu un anno dalle congiunzioni astrali particolarmente favorevoli, perché quel Sogno di un uomo ridicolo non ebbe successo e non fu nemmeno un trionfo. Di più: fu l’evento dell’anno. C’è sempre un momento, nella vita di un attore, nel quale la fortuna e le scelte che compie lo mettono in sintonia con gli spettatori. E io non posso negare di averla avuta, questa fortuna, anche se poi la difficoltà nel mio settore non è far bene sul momento, ma durare nel tempo».

E lei, in effetti, a distanza di molti anni può vantare una grande carriera.
«Non mi lamento. Come disse una volta Borges, “Il tempo è una tigre che mi divora, ma io sono quella tigre; il tempo è un fuoco che mi brucia, ma io sono quel fuoco; il tempo è un fiume che mi travolge, ma io sono quel fiume”».

«”Il sogno di un uomo ridicolo” è talmente dentro di me che a volte salto dei pezzi, ma quando me ne accorgo lo rigiro e torno al punto giusto. D’altra parte, noi attori non dobbiamo recitare come se avessimo uno spartito in mano, ma fare jazz»

Come ha scelto di relazionarsi, nel tempo, con il protagonista di quest’opera?
«Ho cercato a lungo Alfredo Polledro, uno dei traduttori più quotati di Dostoevskij, ma non c’è stato modo di trovarlo. E credo sia stato un segno, perché alla fine io non pronuncio più la traduzione esatta delle sue parole, bensì qualcosa che le assomiglia e che allo stesso tempo è un tradimento. Mi spiego meglio: Il sogno di un uomo ridicolo è talmente dentro di me, ormai, che certe volte durante lo spettacolo salto dei pezzi, e quando me ne accorgo rigirandolo torno sempre al punto giusto. D’altra parte, come dico sempre ai miei attori, non dobbiamo recitare come se avessimo in mano uno spartito, ma fare jazz».

Un jazz che nel testo di Dostoevskij tocca tematiche universali, come l’amore per l’altro e la fratellanza, che rilette alla luce delle atrocità di questo momento storico sembrano quasi stridenti…
«Il punto è che Dostoevskij, insieme a maestri come Eschilo, Sofocle, Euripide, Shakespeare, Čechov, Ibsen o Strindberg, rappresenta la nostra eredità, un’eredità che non dobbiamo disseccare. Il suo personaggio è determinato a uccidersi, compra un revolver, lo mette sul tavolino e poi si addormenta. Ed è lì che quest’uomo, considerato da tutti ridicolo perché vive male in mezzo agli altri, sogna una cellula di verità: amare l’altro come amiamo noi stessi, il che nella storia personale di Dostoevskij coincide anche con il momento in cui si riavvicina a Cristo in quanto uomo».

Alla luce di questi elementi è curioso il fatto che Il sogno di un uomo ridicolo l’abbia anche adattato per la TV. Con le logiche di oggi sarebbe impensabile.
«Invece all’epoca qualcuno propose ai vertici di riportare il teatro in televisione, pensando però a un approccio diverso. Chiesero a me di fare qualche proposta e io optai per quella che mi stava più a cuore. Era una scommessa difficile, perché si trattava di un monologo e perché, fra l’altro, realizzammo il progetto in pochissimo tempo. Eppure, questa novella mi ha sempre portato fortuna, e in quel caso vinsi addirittura il primo premio per la migliore trasposizione televisiva di un’opera teatrale».

Si direbbe quasi ossessionato da questa storia, al punto che più volte ha dichiarato di voler essere sepolto con la camicia di forza che indossa in scena…
«La camicia di forza e, se lo trovo, il copione».

Gabriele Lavia ne Il sogno di un uomo ridicolo | Ph. Filippo Manzini

Una dedizione commovente, quella che dimostra a Dostoevskij, del quale oltretutto ha rappresentato anche opere come Memorie dal sottosuolo e La mite. Anche se in genere la drammaturgia contemporanea guarda sempre meno a sé stessa e più al linguaggio del cinema…
«Però ormai il cinema in Italia sta morendo, non ci va quasi più nessuno. Le sale sono deserte, i film si guardano per lo più distrattamente sugli schermi di casa. E questo non ha niente a che vedere con l’essere qui e ora tutti insieme. E poi, in sala, ho l’impressione di guardare qualcosa che non per forza mi riguarda, mentre a teatro so per certo che io sono. Tant’è che per andarci mi vesto da me stesso, cioè metto sopra di me ciò che sono quando sto con gli altri».

Non a caso, forse, lei a teatro passa da testi con molti attori in scena (penso a Sei personaggi in cerca d’autore o a I giganti della montagna di Luigi Pirandello) a opere con pochissimi interpreti, come questa in cui è lei l’unico a salire sul panco.
«È vero, ma sono stato costretto a farlo. Quando misi in scena La mite ero il direttore dello Stabile di Torino, e lo spettacolo da cui l’avevo fatto precedere era stato Platonov, famosa Commedia senza titolo di Čechov che richiedeva una grande quantità di attori. Se a un certo punto non mi fossi ridimensionato, mi avrebbero cacciato per motivi di budget».

Ma è paradossale, non crede? Il teatro non si può ridurre solo ai numeri.
«Il fatto è che il teatro costa, anche se probabilmente meno di quello che potremmo immaginare. Spesso, infatti, la spesa non è legata solo al compenso degli attori o o dei registi, ma a un sistema più ampio e complesso che gira intorno a loro, e del quale di fatto non ci possiamo liberare».

Della sua compagnia fa parte anche sua moglie, Federica Di Martino: come si trova a lavorare insieme a lei?
«Per me, in generale, lavorare in teatro è semplice, a patto che si riescano a mantenere serietà e rigore. Sta qui la sua unica difficoltà, come ho imparato dai grandi con cui mi sono rapportato. E nella mia compagnia, così come con mia moglie, non capitano liti o dissidi, né divergenze di opinioni insormontabili. Vale con lei come con tutti gli altri con cui collaboro, dal momento che spesso sono vecchi amici: ci conosciamo da sempre e abbiamo imparato a rispettarci a vicenda. Lo stesso posso dire dei pochi registi con cui ho lavorato, che per lo più comunque sono personalità straordinarie: da Orazio Costa ad Aldo Trionfo, per non parlare del caro Giorgio Strehler… Cosa gli si poteva dire? Erano grandi e basta».

«Un giorno, durante le prove di “Re Lear“, Giorgio Strehler mi disse: “Purtroppo vedo una sciagura abbattersi su di te… Farai il regista”. E aveva ragione»

Dalle sue parole si percepisce che il suo affetto per Strehler è ancora molto forte.
«Dei parecchi che ho conosciuto, Strehler è certamente il regista più importante, e un uomo che mi ha onorato della sua fraterna amicizia. Un giorno, durante le prove di Re Lear, ricordo che mi disse: “Purtroppo vedo una sciagura abbattersi su di te… Farai il regista”. E aveva ragione. Dopo quell’esperienza avevamo in progetto di portare in scena insieme anche Amleto, ma poi purtroppo la vita non ce ne ha dato il tempo. Conservo ancora un foglio a quadretti strappato male, con su scritto “Il nostro Amleto aspetta, ma non per molto”».

In tutto ciò stupisce che un uomo del suo spessore umano, nonché un interprete così raffinato, si approcci sempre con grande umiltà al testo che rappresenta…
«È perché ho avuto il privilegio di interpretare opere di spessore. Di fronte al genio di certi drammaturghi cosa mai potrei contare io? Niente, ecco cosa. E se le mie scelte sono sempre state legate alla messa in scena di grandi capolavori è perché, in fondo, penso che la vita sia troppo breve per perdere tempo con le sciocchezze».

Eppure, il rapporto del pubblico con certe opere del passato sembra ormai meno affezionato, come se stessimo perdendo l’abitudine alle grandi riflessioni.
«In realtà non esiste un teatro di ieri e un teatro di oggi, un teatro “vecchio” e uno “nuovo”. Noi non interpretiamo i testi in sé, ma solo la loro messa in scena. E, quando sappiamo proporla come si deve, lei sarà per definizione contemporanea. Certo, il rapporto con la parola si basa pur sempre sulla memoria, mentre il nostro Paese da questo punto di vista è distratto, meno preparato rispetto a qualche decennio fa, appiattito su altro. Ma da momento in cui l’uomo si è visto rappresentato su un palcoscenico per la prima volta, quel procedimento elementare di immedesimazione non ha mai smesso di affascinarci. Diciamoci la verità, il teatro è e resta ineludibile».

Quindi, conclusa la tournée de Il sogno di un uomo ridicolo, ha già in programma qualche altro progetto?
«Sì, mi dedicherò a un’opera poco conosciuta di Carlo Goldoni, intitolata Un curioso accidenti. Un testo che è ambientato in Olanda, e che proporrò proprio perché non è molto noto al grande pubblico».

E in camerino cos’è che porterà con sé, spostandosi da una città all’altra per gli spettacoli?
«Poca roba, in realtà. Ma di sicuro, come sempre, una fotografia di mia nonna Carmela, colei che mi ha iniziato a Luigi Pirandello».

Il nostro impegno è offrire contenuti autorevoli e privi di pubblicità invasiva. Sei un lettore abituale del Sicilian Post? Sostienilo!

Print Friendly, PDF & Email