Uno dei grandi limiti del nostro Paese, soprattutto negli ultimi anni, è dato dal crescente squilibrio sociale. Lo scollamento tra la politica ed elettori, tra le nuove generazioni e quelle che le hanno precedute (solo per citare due esempi), gravano ogni giorno sul nostro presente e incombono in maniera sempre più minacciosa sul nostro futuro prossimo. È possibile trovarne delle ragioni storiche? A dare una risposta a questa domanda ha provato recentemente Ernesto Galli della Loggia, professore emerito di Storia contemporanea all’Istituto Italiano di Scienze Umane della Normale di Pisa, che è stato protagonista la scorsa settimana di un colloquium alla Scuola Superiore di Catania. Introdotto dal prof. Sergio Cristaldi, ha illustrato la propria chiave di lettura della storia d’Italia: individuando nell’esclusione delle masse dai fatti del Risorgimento una prima ragione della divisione tra “élite” e “popolo”, mai sanata nel tempo nonostante le intenzioni di alcuni intellettuali e infine ingabbiata nella triade “parlamento-partiti-sindacati” imposta dalla nostra Costituzione. Ma quali sono gli effetti di tutto questo oggi? Nell’epoca del “governo del cambiamento” (e della sua continuazione nel “Conte II”) voluto da una forza nata prepotentemente come antisistema e inneggiante alla democrazia diretta, è possibile ripensare a una società diversa? Può la scuola, con tutte le sue riforme, fungere da “bilancia sociale” e offrire un futuro alle nostre generazioni più giovani, le quali sembrerebbero al momento unite solamente da una condizione di disagio del tutto inedita a coloro che le hanno precedute? La presenza a Catania del professor Galli della Loggia è stata, in questo senso, un’occasione preziosa per discuterne faccia a faccia e provare a capire se ciò a cui stiamo assistendo sia davvero, per citare una raccolta di suoi editoriali uscita un paio d’anni fa, “Il tramonto di una nazione”. 

Professore, il titolo del suo incontro a Catania prende spunto da una contrapposizione tra “Élite” e “Popolo”.  Un’élite può essere, però, anche religiosa, intellettuale, militare o scientifica. Quelle politiche, poi, dovrebbero essere per loro natura conflittuali, poiché rappresentano valori in contrasto con altri. Allo stesso modo, è “popolo” sia quello che scende in piazza per una rivoluzione sia quello che lo fa per una contro-rivoluzione. Di cosa parliamo, allora, quando ci soffermiamo su questa dicotomia?
«Ciò che lei dice è vero: possono esserci tante élite e tanti popoli, e secondo questo ragionamento parlare di questo contrasto potrebbe non avere senso. Tuttavia, la singolarità della storia d’Italia ha creato un forte distacco tra il “paese reale” e il “paese legale”. Perciò si può dire che questa specificità legittimi l’utilizzo di queste due grandi categorie in modo omnicomprensivo. Non per nulla l’Italia ha dato i natali a Pareto e Mosca, grandi teorici dell’elitismo, inteso come centralità delle élite nel processo politico e sociale. Anche perché essendoci stata, e continuando ad esserci, una fortissima presenza dell’attività Stato in tutti i campi della società, ciò che in Italia ha un peso spropositato è l’élite politica, spesso definita “Casta”, la quale tende a dominare su tutto, anche su altri tipi di élite».

Anche su quella finanziaria?
«Certamente. Pensiamo al caso del “Monte dei Paschi di Siena”: chi ha insegnato a Siena sa benissimo che il MPS era una sorta di appendice o matrice del Partito Comunista. La dirigenza di quella banca era una élite finanziaria immersa nella politica, la quale è poi intervenuta per salvarla. Allo stesso modo, la finanza cattolica ha avuto molto a che fare con il partito della DC, basti pensare alle vicende che hanno interessato il “Banco Ambrosiano”. Storicamente l’élite finanziaria non ha dimostrato di avere differenziazione da quella politica. Stessa cosa si può dire per quella industriale e imprenditoriale, sempre a caccia di favori dallo stato, trattamenti speciali e leggi che consentano l’elusione fiscale».

«Una legge finanziaria votata con un clic? La politica, se fatta bene, è un mestiere a tempo pieno»

Poc’anzi parlava della natura “castale” delle élite politiche. Tuttavia, il nostro attuale governo è guidato da un Movimento nato dal “vaffa-day”. Qualcosa è andato storto?
«Ciò che è successo negli ultimi anni in Italia è un po’ una conferma della specificità italiana. Abbiamo un partito nato sulla protesta anti-castale più assoluta, tuttavia episodi come quello della casa del ministro Trenta dimostrano la capacità attrattiva dell’élite italiana. In un certo senso è come se, una volta entrati in quel pattern ideologico fosse impossibile non aderirvi. E questo naturalmente è un grosso problema, poiché forma un tappo al vertice delle istituzioni».

Il M5s ha anche ipotizzato un’idea di democrazia diretta, chiamando in ballo Rousseau e intestandogli una piattaforma.
«Credo che l’appropriazione del suo nome sia largamente abusiva. Rousseau ha illustrato i problemi e i limiti della democrazia rappresentativa, calcando troppo la mano sui difetti, però non è mai stato un vero teorico di quella diretta, che potrebbe funzionare al massimo in qualche cantone svizzero. Di certo non in un paese come l’Italia».

Ernesto Galli della Loggia alla Scuola Superiore di Catania

Il web, in questo senso, è un’opportunità ancora da cogliere?
«La rete consente a ognuno di esprimere un’opinione, ma il problema della democrazia, nel momento in cui diventa governante, è che deve prendere decisioni informate. Chi, dei vari utilizzatori del web, ha il tempo di studiare le montagne di documenti che formano le premessa per ogni decisione che le camere devono prendere? Questi signori hanno mai visto quella parte degli atti parlamentari che si chiamano documenti? Sono volumi e volumi. Qualcuno ha davvero il coraggio di pensare che si possa votare una finanziaria con un clic? La politica, se fatta bene, è un mestiere a tempo pieno. Per non parlare della competenza. Non è un caso che i lavori parlamentari si fondino su delle commissioni, ognuna delle quali è specializzata e composta da persone che si presume – almeno teoricamente – siano le più adatte ad occuparsi di quel settore».

Il tema della mancanza di competenza affligge molto anche al mondo dei social, dove si può leggere davvero di tutto e spesso è difficile per un utente discernere ciò che è autorevole da ciò che non lo è. In questo contesto, qual è il ruolo del giornalismo?
«Quello di illuminare i fatti, accertandoli. Il giornalismo libero – se vuole e sa fare il suo mestiere – è un contrappeso formidabile alla divulgazione delle fake news. Esso nasce come contraltare al potere, sia quello di maggioranze idiote che credono fandonie, sia quello di governi che voglio fare passare delle versioni dei fatti “aggiustate” secondo i propri comodi».

«Una scuola democratica non è quella che promuove i figli dei poveri, ma che bocci i figli dei ricchi»

Quando parliamo dei problemi dell’Italia non possiamo prescindere dallo scollamento tra le generazioni che si affacciano all’età adulta e quelle che le hanno precedute. Per citare il titolo della nostra rivista annuale, esiste una “generazione perduta”?
«In Italia ci sono giovani che vivono esperienze diverse: non saprei dire se quelle di un catanese e quelle di un torinese siano confrontabili. Tuttavia, ad unificarli è il fatto di essere vittime degli elementi: entrambi non avranno le risorse e le possibilità dei loro padri. Questo si traduce nella necessità di allontanarsi dal proprio paese, un’esigenza non conosciuta a coloro che li hanno preceduti. Probabilmente non si tratta di una generazione perduta, ma sicuramente è una generazione in difficoltà».

Esiste anche una generazione tradita. Quella dei nati tra gli anni ’80 e ’90.
«Questa situazione è andata peggiorando col passare del tempo. Le nuovissime generazioni, quelle che si affacciano alla vita adesso, sono più spaurite di quelle che lo hanno fatto dieci anni fa. L’accumularsi di generazioni scontente è grave per il paese, poiché dovrebbero essere quelle più portate all’azione. Questo squilibrio sociale è stato spesso compensato dal reddito degli anziani, ma quando questi ultimi cesseranno di vivere, cosa accadrà?».

Sempre a proposito delle nuove generazioni. Lei ha recentemente pubblicato un volume intitolato “L’Aula Vuota”. Perché, per citare il sottotitolo del suo libro, l’Italia ha distrutto la scuola?
«Il compito della scuola è quello di impartire l’istruzione, favorendo attraverso l’ascesa sociale di chi viene da famiglie meno fortunate. In questo l’Italia ha fallito per via di alcune scelte fatte negli anni ’70 e ’80 che oggi paghiamo a caro prezzo. Mi riferisco in particolare alle riforme che, sebbene necessarie, hanno mal interpretato il concetto di “scuola democratica di massa”».

«Si può essere un buon cittadino anche studiando le guerre puniche e fermandosi alla Prima guerra mondiale»

In che senso?
«Si è pensato che questo si attuasse favorendo il cosiddetto “successo formativo”, in altre parole con una Scuola molto larga nel promuovere. Io, tuttavia, credo che una scuola democratica non sia quella che promuove i figli dei poveri, ma che bocci i figli dei ricchi. Utilizzare come unico valore l’accertamento del merito compensa gli squilibri sociali. Ma se la Scuola non riesce a fare questo tradisce la sua vocazione».

Oggi si parla spesso delle “Soft Skill”: la scuola deve insegnare a saper fare o deve insegnare a sapere?
«Credo che debba insegnare il sapere, non il saper fare, e che il cuore dell’istruzione sia dato dalle materie umanistiche, le quali non hanno una applicazione pratica immediata. Del resto, una scuola che impartisca soltanto insegnamenti di biologia, chimica o matematica, sarebbe uguale da New York a Mosca. Una prospettiva terrificante, che le farebbe perdere una funzione fondamentale: quella di consegnare alle nuove generazioni il passato della propria comunità».

A proposito di passato. Lei ritiene che, in questo senso sarebbe necessario dare più spazio alla storia contemporanea nei programmi scolastici?
«No. Io sono contrario al “presentismo” e trovo che studiare a scuola la storia degli ultimi 30-40 anni sia un po’ inutile. Certo si può imparare anche da essa, ma non è così cruciale conoscere la resistenza o la decolonizzazione. Si può essere un buon cittadino anche studiando le guerre puniche e fermandosi alla Prima guerra mondiale».

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