Quando si parla dei siciliani, generalmente, ci si riferisce a loro come un popolo incapace di autogovernarsi, abituato ad osservare impotente i diversi dominatori che nel corso dei secoli si sono spartiti il controllo dell’isola. E in questo, in effetti, risiede una parte di verità. Ma altrettanto spesso ci si dimentica di un evento senza eguali rispetto al periodo storico in cui è accaduto, in cui gli isolani si sono contraddistinti per spirito di collaborazione e desiderio di cambiamento. Per scoprire di quale occasione si tratta dobbiamo tornare indietro fino al Medioevo, al 30 marzo del 1282 in quel di Palermo: lì ebbe inizio l’esperienza dei Vespri Siciliani, uno dei primi veri atti di autodeterminazione non solo in Sicilia, ma in tutto il Vecchio Continente. A raccontare la cacciata degli Angioini, e la richiesta di intervento del popolo siciliano a Pietro d’Aragona, fu lo storico Michele Amari, ancora oggi una delle fonti privilegiate per ricostruire le vicende del tempo.

Nel 1882 lo studioso palermitano dava alle stampe Racconto popolare del Vespro siciliano, dove ben ricostruita è la vessazione francese ai danni degli abitanti dell’isola che si protrasse ininterrottamente dal 1266 allo scoppio della rivolta: «Per sedici anni i siciliani, al par degli abitanti del regno, erano stati senza tregua spogliati e vilipesi […] Re Carlo non convocò mai parlamenti, elevò sempre la colletta come volle, e spesso non una ma due volte l’anno; mantenne, accrebbe, aggravò ancora con la molestia e durezza della riscossione, i contributi indiretti dei tempi di Federigo II». Tasse inique e coatte, privazione dei privilegi baronali a vantaggio della classe dirigente angioina, diffusa atmosfera di guerriglia e ostilità: questo portò all’esasperazione i siciliani di ogni ceto. Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu più curiosa e, se vogliamo, spregevole. È sempre Amari, che ai dettagli più propriamente documentari miscela abilmente la componente leggendaria, a rendere conto di ciò: pare, infatti, che la sera del 30 marzo, con la scusa di una improvvisa perquisizione, un soldato del reggimento angioino avesse indugiato oltre il dovuto su una donna di alto rango, arrivando fino alla vera e propria molestia. Offeso da una simile prepotenza, il consorte della donna avrebbe sottratto la spada all’ufficiale francese, uccidendolo e dando il via alle cosiddette guerre del Vespro, che presero il nome dalla circostanza di essere nate sul far del tramonto, quando in molte chiese – e in più quel lunedì seguiva la Pasqua – si dava spazio a delle funzioni di preghiera. Il conflitto – in occasione del quale sarebbe nata l’attuale bandiera siciliana – si concluse con la Pace di Caltabellotta del 1302 e il sancito avvicendamento tra angioini e aragonesi.

Quale fu la chiave del successo di questa impresa? L’unità. Condividendo, per la prima volta, i medesimi obiettivi, ricchi e poveri, uomini e donne, laici e religiosi scelsero di comune accordo per il bene esclusivo della Sicilia. Nonostante gli effetti dei Vespri andarono perduti alla lunga, il popolo siciliano dimostrò una lungimiranza senza pari nel solo pensare di poter stabilire il proprio destino dal punto di vista politico. Non fu, infatti, solo una difesa di privilegi e di onore: fu una vera sfida alla mentalità di allora, alla preclusione all’inseguimento della libertà, a chi credeva di poter spadroneggiare rimanendo impunito. Seppur ormai distante, apparentata ad una favola per intrattenere grandi e piccini, quell’esperienza cela un messaggio che ancora oggi, a ben guardare, mantiene una sua forte validità: prima ancora che siciliani, presi dalle nostre differenze e dalle nostre peculiarità, dovremmo ricordarci di essere uomini con desideri, sentimenti, aspirazioni. Piuttosto che disperarsi per ciò che non va, per le scelte degli altri che non combaciano con le nostre aspettative, dovremmo fare fronte comune, essere artefici del nostro destino, supportarci e sopportarci. E non perdere mai di vista la stella polare dell’indipendenza morale.

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