«Già da tempo per me i generi musicali sono semplici etichette che non hanno più alcun valore. La musica è una sola, anche se attinge da diverse esperienze. Quindi creare schieramenti, fronti, è un’operazione che va soltanto a svilirla. Queste distinzioni possono avere un senso per la musica d’immediato consumo e per il suo marketing ma, accanto a questa, c’è la musica che si stratifica lentamente, come quella popolare, che non ha un unico autore ma intere popolazioni». Le convinzioni di Giovanni Sollima sono talmente forti da far impallidire i più intransigenti puristi, ma lui che con il suo archetto ha attraversato il Barocco, l’heavy metal, la classica, la contemporanea è forse il più grande fautore della musica con la maiuscola a cui la nostra terra potesse dare i natali. Violoncellista e compositore, Sollima ha collaborato con i più grandi: Abbado, Sinopoli, Argerich, Muti; eppure il suo modo di concepire la scrittura e l’esecuzione ha sempre poggiato su basi inclusive. L’abbiamo incontrato, poco prima che iniziasse le prove, nel suo camerino al Bellini di Catania, dove questa sera debutterà con il suo “Stabat Mater” (che replicherà anche domani pomeriggio), per fare un bilancio di quest’ultimo anno e farci raccontare i suoi prossimi progetti.

All’inizio della sua carriera, le sue idee sono state considerate “sovversive” dal sistema. In particolare, lei è noto per aver ridato lustro alla nozione di musica popolare. Si tratta di un’opinione davvero rivoluzionaria?
«No, perché la musica che proviene dal basso è qualcosa che ha sempre attratto i musicisti, a cominciare da Bach. Anche Haydn, Bartók, Ligeti viaggiavano e raccoglievano oggetti sonori, lingue e dialetti, annotandoli. Io credo che la musica sia un fatto atemporale; basta prendere una canzone dei Nirvana: ha la stessa struttura di un’aria di Purcell, anche la linea del basso è simile. Ci sono musicisti come lo stesso Bach che funzionano a qualsiasi latitudine ed epoca, tant’è che dal 1977 le sue composizioni sono state inserite nelle due sonde spaziali del programma Voyager».  

Ancora oggi, però, il modo di fruizione a cui siamo abituati si attiene una rigida demarcazione tra musica “colta” e tutto il resto.
«Quelle regole sono state inventate solo nel secolo scorso, al tempo di Mozart la gente cantava i suoi pezzi per strada e andava all’opera in piedi, con le birre. Col tempo tutto si è irrigidito diventando ritualità. Io ho bisogno di sentire l’energia e l’immediatezza della musica che non può essere filtrata da un abbigliamento di circostanza o relegata a un fatto museale». 

Nel 2012 la sua visione di una musica senza confini si è trasformata in un progetto concreto, i 100 Cellos, che riunisce generazioni e musicisti diversi.
«I 100 Cellos sono un progetto “anarchico” nato da un’esigenza di aggregazione, cosa che ahimè molte istituzioni musicali e scuole ormai non fanno più. Il range d’età va dai sei ai settant’anni, quindi è un gruppo molto variegato che accoglie star, giovani talenti, concertisti, orchestrali, gente che aveva appeso lo strumento al chiodo, pensionati e ancora professionisti, bambini, infiltrati che comprano lo strumento dieci giorni prima e lo imparano sui tutorial di Youtube, metallari svedesi, rockettari. Il nostro è un suono policromo come anche il repertorio, che di volta in volta affrontiamo».

I 100 Cellos sono un progetto a forte vocazione “social”. Ma come avete provato durante il lockdown?
«Da questo punto di vista il Coronavirus non ci ha fermati, anche se 100 Cellos e pandemia insieme sono un ossimoro. Abbiamo tenuto i rapporti, evitando però di fare eventi in streaming perché il nostro è un progetto live. I social e le email ci hanno aiutato ma essendo un evento energetico da condividere dal vivo era assolutamente impensabile liofilizzarlo in un’altra formula. Il nostro format di solito prevede prove a porte aperte per tre giorni, nelle quali il pubblico può partecipare liberamente assistendo allo smontaggio e alla ricomposizione dei pezzi. Fra l’altro l’anno prossimo festeggeremo i dieci anni d’attività con due concerti all’Expo di Dubai in primavera e uno al Ravenna Festival in giugno».

Proprio al Festival emiliano, quest’anno ha lavorato per la prima volta con il controtenore Raffaele Pe, che poi ha coinvolto anche nel progetto dello “Stabat Mater”. Qual è la particolarità della sua voce?
«Ho avuto la fortuna di incontrarlo per l’esecuzione dei miei “Sei studi sull’Inferno di Dante”. Nell’idea ottocentesca e in qualche modo lisztiana, gli inferi sono solitamente rappresentati da una voce baritonale. Alla luce della sofferenza e delle fragilità raccontate da Dante, volevo un canto che a tratti avesse anche una dimensione angelica. La vocalità di Raffaele è talmente incredibile da poter affrontare qualsiasi repertorio dall’early music alle canzoni pop e rock, senza alcuno sforzo».

Diciamo che non è nuovo alla musica sacra: nel 1993 compose il “Requiem per le vittime della mafia” seguito qualche anno più tardi da un “Alleluja”.
«Il “Requiem” non è un brano sacro, è un rituale con dei meccanismi da cui non mi sono ancora liberato. È difficile parlarne, mi ricordo quel giorno la cattedrale di Palermo transennata, il fatto che io e gli altri compositori volessimo le famiglie delle vittime sedute in prima fila, una strana delegazione che si avvicinò a noi dicendo: “Ah, chista musica è!” e tanti rappresentanti del mondo politico, che non avrei voluto vedere in quella circostanza. Quello stesso giorno scattò il primo avviso di garanzia ad Andreotti. Chi viveva a Palermo all’epoca, aveva la netta sensazione che la società civile cominciasse a reagire, anche se fino a quel momento le alternative erano state: soccombere o fuggire. Anch’io a un certo punto sono andato a vivere fuori, prima a New York e poi a Berlino».

Come ha strutturato questo “Stabat mater” costruito sui versi in dialetto di Filippo Arriva?
«La struttura è in otto movimenti, con dei segmenti interni che aprono il tema sacro ad altre prospettive. L’ossatura è quella della Laude di Jacopone da Todi, che Filippo ha comincia a stratificare con questo siciliano arcaico al limite tra la parola e il fonema e che allontana la musica da qualsiasi concessione folcloristica. Oltre alla voce centrale del controtenore e la presenza del coro, abbiamo il theremin che crea come dei fantasmi e i tam tam suonati con una superball che richiamare una vocalità proveniente dal basso».

Spesso la funzione della musica è quella d’innalzare l’uomo a Dio, è ancora valida quest’ affermazione?
«Sì, lo “Stabat mater” ha una tematica modernissima che sarà valida anche fra duemila anni. Sei tu a decidere se cullare il dolore che ti trafigge oppure urlarlo. E vale nella musica come nella vita; io ho scelto di percorrerlo in maniera intima, trasformando alcuni punti dell’opera in una liturgia.

Ha più volte dichiarato di aver trascorso questi mesi di pandemia a scrivere.
«Sì, avevo proprio bisogno di questo tempo sospeso. Ho composto due opere liriche ponendo le basi per una terza, scritto un quintetto, lo Stabat Mater e altra roba di cui non posso dire nulla. Ah, ho anche registrato le “Sei Suites” di Bach, partendo da uno studio sul manoscritto di Anna Maddalena».

Finalmente un autore vivente che scrive per l’opera. Crede che prima o poi un contemporaneo riuscirà ad entrare nell’olimpo dei grandi?
«Spero che dopo la pandemia, i teatri e le istituzioni riescano a rinnovarsi e a snellire un sistema che è fermo agli anni’70. Vorrei vedere più creatività e meno immobilismo. Rovistando nelle biblioteche ho trovato una quantità incredibile di materiale operistico del Settecento, oltre che di musica strumentale, da riportare alla luce. E poi ci sono le nuove creazioni, tra i giovanissimi compositori abbiamo delle eccellenze che vivono con meno timore e paranoia la divisione in schieramenti o scuole di pensiero. Ho tanti amici che scrivono tranquillamente passando dal cembalo alla chitarra elettrica, adoperando un cluster o il basso continuo. In fondo è quello che io faccio da anni nonostante gli attacchi che ho subito sin da ragazzino. Forse qualcosa ha funzionato. Io credo che l’intellighenzia debba essere sempre supportata da un sano artigianato. Non bisogna avere paura di sporcarsi le mani su uno strumento, Bach passava le ore a improvvisare. Noi tutti dovremmo guardare a questi grandi modelli».

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