Gli anni perduti di una terra di sognatori: i siciliani e il simbolo della torre
In Sicilia abbiamo tutto, ci manca il resto. Quasi un mantra, divenuto giustamente famoso come rappresentazione di una situazione paradossale ma vera. Perché gli isolani si sono spesso visti sbattere le porte in faccia da governi poco lungimiranti e catastrofi naturali. Ma, pur nella diffidenza, hanno continuato a costruire le loro vite mattone dopo mattone, nella speranza di un futuro diverso
Qualcuno, una volta, disse che in Sicilia abbiamo tutto, ma che ci manca il resto. Una provocazione, senza dubbio, simpatica e accattivante. Ma portatrice, al tempo stesso, di una verità profonda, di una conoscenza della realtà isolana particolarmente spiccata. È difficilmente contestabile, infatti, che la Sicilia, nel corso della sua storia, sia stata numerose volte ad un passo dalla totale fioritura delle sue capacità, da una svolta epocale capace di cambiarne le sorti. Altrettanto spesso l’entusiasmo e la voglia di cambiamento dei siciliani si sono accesi nella speranza di ribaltare catastrofi naturali o governi dispotici. Tentativi sentiti e apprezzabili, che spesso tuttavia si sono rivelati vani. Perché al momento di compiere l’ultimo, fatidico passo, ostacoli insormontabili si sono parati davanti a questi slanci: a volte è stata colpa di una burocrazia soffocante, altre volte il cambio di regime si è rivelato uno specchietto per le allodole, una rivoluzione di facciata in cui tutto cambiava, in realtà, per non far cambiare nulla. Ma pur nel vedersi frustrati rispetto ai loro desideri, i siciliani non hanno mai ceduto il passo rispetto alla propria integrità, non sono mai stati fiaccati dalle circostanze, anche quando tutto sembrava perso. Nessuno come Vitaliano Brancati ha saputo illustrare, connotando in questo senso molti dei suoi personaggi, questo singolare aspetto della personalità isolana. Diviso tra sogno e realtà.
«[…] Lasciavano i cuori chiusi e chinati dalla loro canzone come i fiori dal gelo notturno. Sicché veniva fatti di domandarsi: a che tanti dolori, a che tante morti, se i nuovi vivi ripetono, con sì strana esattezza, i cari perduti, e sei i nuovi come i vecchi giovani, non sanno cosa fare la sera e il rumore delle stagioni somiglia a quello dell’acqua sulla riva, e alla fine è sempre lo stesso, e forse il mare, nonostante il frastuono e lo scintillio, non si muove per nulla?». Il secolare, inevitabile binomio tra immobilismo e dinamicità, tra tempo e memoria, tra vivido movimento e mortifera staticità: questo emerge da uno dei momenti più lirici e pregnanti del romanzo Gli anni perduti, pubblicato nel 1936. Un romanzo a tratti paradossale, caricaturale, come piaceva a Brancati. Ma forse proprio per questo, proprio per la sottile capacità inquisitrice dell’ironia rispetto alle mistificazioni della realtà, fortemente rivelatore di un mondo, di un insieme di pensieri. La vicenda, infatti, ruota attorno alla costruzione di una torre panoramica nella città di Natàca, da anni preda di una noia e di una cupezza inesorabile. Fino a quando, appunto, il professor Buscaino, giungendo in città, non riattiva nella cittadinanza il desiderio di guardare al futuro proponendo la realizzazione dell’edificio. Giovani sfaticati e vecchi appesantiti si gettano a capofitto, per un intero decennio, nell’opera di costruzione, convinti che il suo completamento coinciderà con il diradarsi definitivo di quella cappa di tristezza che li aveva avvinti. Un colpo di scena, però, mette fine ad ogni speranza: da ben quattordici anni, all’insaputa di tutti, un decreto cittadino vieta che edifici del genere possano sorgere. È la vittoria della disperazione? Davvero, come suggerisce il testo che abbiamo riportato, per quanti sforzi vengano profusi, siamo destinati ad assistere ad un opaco avvicendamento di episodi senza senso, uguali nella loro insensatezza?
I siciliani, come le figure di Brancati, sembrano quasi ciondolanti, portatori naturali di un torpore che somiglia ad una forma di rassegnazione. Quell’andamento tipico di sperduti – a volte dimenticati – paesini ma anche delle grandi città, seppur mascherato dalla frenesia. Ma questo andamento lento, questa sfiducia istintiva verso le istituzioni e il loro funzionamento, verso la possibilità di realizzare compiutamente un qualsivoglia progetto, è in realtà un dispositivo che ci permette di mantenere l’equilibrio, una polizza contro gli infortuni del destino, un cicatrizzante contro il potere delle illusioni. Il siciliano ha imparato ad attendere il momento giusto per mostrarsi nella sua interezza, per affidarsi a qualcun altro, per credere. Si è rintanato in questa pellicola quasi impenetrabile: non per un rifiuto verso il mondo, non per riluttanza a volerlo cambiare, ma per averlo amato troppo. Ogni siciliano di ogni generazione ha costruito la sua torre, ha speso energie per un’idea che qualcuno ha fatto crollare prima di assumere forma, ogni siciliano si è visto sbattere almeno una porta in faccia per motivi non sempre chiari. Ma, pur nel chiuso del suo pudore e della sua diffidenza, è rimasto in cima a quella torre che aveva eretto. Aspettando qualcuno che lo aiuti a finirla.