«L’antico patrimonio vinicolo siciliano nasconde una ricchezza con una lunga storia da raccontare legata alla nostra terra e a chi l’ha abitata. Io amo definirli vitigni gioiello perché sono piante rare ad alto indice di estinzione». A parlare è Elisabetta Nicolosi, ricercatrice di Arboricoltura generale e coltivazioni arboree all’Università di Catania, che collabora a un progetto su scoperta, tutela e utilizzabilità dei vitigni reliquie insieme a un gruppo di lavoro del Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione ed Ambiente. L’abbiamo intervistata insieme ad Aldo Lorenzoni, enologo veronese del progetto Graspo (Gruppo di Ricerca Ampelografica per la Salvaguardia e la Preservazione dell’Originalità e biodiversità viticola) in occasione di ViniMilo che la scorsa settimana ha inebriato le pendici dell’Etna.

Elisabetta Nicolosi

IL PROGETTO ETNEO. «C’è stato un momento in cui si vendeva tantissimo il vino rosso, quindi sono aumentate le coltivazioni di Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio, mentre Carricante e Catarratto sono stati messi da parte. Oggi vanno più bianchi e rosati e la situazione si è invertita. Per un certo periodo, invece, il boom dei vitigni internazionali ha portato Pinot e Cabernet Sauvignon a prevalere. Ed ecco che, nel corso del tempo, la piattaforma ampelografica dell’Etna si è ristretta». Così Nicolosi ci spiega come mode e leggi di mercato abbiano selezionato poche varietà di vite a svantaggio della biodiversità. Ma la Sicilia da bere offre tantissimo e tanto è ancora inesplorato. La prova? I vitigni gioiello. «Abbiamo iniziato a studiarli negli anni Duemila quasi per gioco – continua l’esperta catanese –. Tra i vecchi vigneti etnei i piccoli viticoltori ci mostravano ceppi usati per la vinificazione domestica che chiamavano con nomi particolari. Il Terribile, lo Zzinèuru, il Virdisi, le due Madama bianca e nera, il Barbarossa, la Moscatella nera, la Vispara: sono alcuni dei 12 in totale tra bianchi e rossi che custodiamo in un campo di conservazione dell’Università di Catania». Ad esempio, la Vispara – così indicata probabilmente perché ricchezza in zuccheri e precocità la rendono attraente per le vespe – è stata rinvenuta a Milo: appartiene ad una famiglia considerata centrale nell’origine del germoplasma viticolo italiano. «Eccetto un circoscritto esperimento, queste uve etnee non sono state imbottigliate. Ma non vogliamo restino reperti di museo – tiene a precisare – per cui abbiamo coinvolto produttori di ogni versante per testarne il diverso adattamento in attesa di sistematizzare la vinificazione». 

«Sono storie di ordinario eroismo in chiave di preservazione genetica, quelle degli anziani viticoltori che spesso sono custodi di questi vitigni, e coloro i quali ci hanno consentito di ritrovarli»

Aldo Lorenzoni
Aldo Lorenzoni

IL PROGETTO GRASPO. Sull’importanza di investire sulla conoscenza di queste uve torna Aldo Lorenzoni, enologo di Graspo, il gruppo di ricerca che in appena 3 anni ha individuato in tutta Italia oltre 60 vitigni reliquia. «Noi li chiamiamo “bastardi in culla” perché sono lasciati da parte, non riconosciuti, e abbiamo appena iniziato a valorizzarli». Nell’elenco dei vitigni reliquie della Graspo ritroviamo anche i vitigni etnei individuati dall’Università di Catania. Lorenzoni e Nicolosi si sono conosciuti lo scorso anno proprio a ViniMilo e fin da subito è stata forte l’esigenza di fare fronte comune. A favore della biodiversità dell’Etna è nata Ritorno, iniziativa di concerto che, oltre a coinvolgere Graspo e Unict, vede in prima fila l’Azienda Sassotondo che, in memoria del nonno catanese Edoardo Ventimiglia (tra l’altro primo cameramen di Hitchcock), ha deciso di produrre serie limitata di Etna Bianco Superiore in formato magnum. Il ricavato andrà ai “Gioielli dell’Etna”, per esaltarne il potenziale enologico, sia in purezza che come elemento di valore insieme ad altri uvaggi noti. «Perché – sottolinea l’enologo – non vogliamo solo leggerli ma berli: quando possibile, procediamo, infatti, con micro o nano vinificazioni. Saggiarne le inedite proprietà organolettiche, come ha potuto fare il fortunato pubblico di ViniMilo, regala esperienze uniche, frutto non di tecniche sofisticate bensì dell’originale biodiversità vinicola». E, aggiunge senza nascondere l’entusiasmo: «Sono storie di ordinario eroismo in chiave di preservazione genetica conservata da anziani viticoltori, spesso i custodi di questi vitigni, coloro i quali ci hanno consentito di ritrovarli».

VINI IMPOSSIBILI PER UN FUTURO POSSIBILE. Oltre a essere sopravvissuti alle mode del momento, questi vitigni hanno resistito a cambiamento climatico e agenti patogeni come i parassiti. Occorre poi considerare che alcuni non sono mai stati trattati: è quindi ancora più interessante studiarli per capire come orientare la viticoltura. «Se sono giunti fino a noi vuol dire che sono forti», deduce Nicolosi aprendo così al dibattito sul contributo che possono dare alla lotta al climate change. Le fanno eco le parole di Lorenzoni: «Il riscaldamento globale sta provocando una perdita di acidità delle uve che invece quelle riscoperte, per l’elevata presenza di acido tartarico, sembrano ben contenere. Non è lecito chiedersi – chiosa l’enologo – se proprio questi vitigni renderanno possibile il vino del futuro?». Quello per i vitigni reliquia è quindi un viaggio alla ricerca delle radici per costruire le basi di esperienze del domani, tra storia, biodiversità, tradizioni e futuro.  

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