Si dice che esista una connessione quasi misteriosa tra i luoghi e le persone che li popolano. Una sinfonia di riverberi e riflessi, che continuamente plasma abitudini e sensazioni, pensieri e azioni. Non è dato sapere a chi, tra queste due entità, spetti il comando di questa vicendevole influenza: è forse più la geografia, l’urbanistica, il clima a modellare il corso degli eventi di una comunità? O, piuttosto, è la mentalità, il patrimonio genetico di quest’ultima a dare allo spazio la forma più congeniale alla propria visione della realtà? È soprattutto nel linguaggio – nella sua declinazione più nobile e complessa rappresentata dalla letteratura – che questo turbinio di meccanismi inconsci si manifesta in tutta la sua portata. Ne era convinto, e intensamente partecipe, Gesualdo Bufalino che con la consueta, impareggiabile arguzia individuò un momento storico ben preciso nel quale tale felice binomio divenne realtà anche in Sicilia. Secondo lo scrittore di Comiso, infatti, l’avvento del Barocco fu per l’isola una sorta di rivelazione, un’epifania sottratta al suo torpore appartenente ad un tempo immemorabile, un canto di sirena che la attrasse irresistibilmente dentro i segreti più reconditi del proprio essere. Più che una semplice esplosione di bellezza, insomma, un incontro già scritto nelle pieghe del destino.

Sul tema, e sulle ripercussioni che questa consapevolezza ebbe sulla propria cifra stilistica, Bufalino si espresse magistralmente in un’intervista del 1985 rilasciata a Sergio Palumbo e pubblicata parzialmente su La Gazzetta del Sud, rispondendo ad un quesito che lo interrogava sulle ragioni che lo spinsero ad adottare una narrativa così meravigliosamente, ed unicamente, pomposa: «Il Barocco a me pare davvero che sia una componente dello spirito siciliano, così come il gusto dell’iperbole, dei gesti, delle parole eccessive. Insomma, tutto questo volersi moltiplicare ed esprimere, per adoperare una terminologia musicale, sopra il rigo». È qualcosa che scorre sottopelle, questo istinto a cui l’autore de Le menzogne della notte fa riferimento. È un bisogno di colmare il vuoto prodotto da una sottile malinconia, l’affermazione decisa ed inequivocabile di una presenza che pretende di non essere ignorata, la drammatizzazione di una quotidianità che cerca continuamente la sua eterna sublimazione. Ma, si sa, ricondurre il sentire siciliano ad una sola, asfittica etichetta non è mai cosa saggia. E proprio Bufalino, che delle contraddizioni insite nella nostra insularità fu cantore d’eccezione, nella medesima intervista mise in guardia gli interlocutori dal fermarsi a considerazioni prive della giusta profondità. Nel suo essere barocca, del resto, la Sicilitudine si fa portatrice di sfumature imprevedibili e quasi impensabili, addirittura spiazzanti, per alcuni, quando non incomprensibili. «È anche vero che la psicologia siciliana fa il paio con un altro tipo di comportamenti esattamente contrari, e cioè l’avarizia della comunicazione, l’affidarsi al segno, al messaggio cifrato, all’allusione. Questi due comportamenti contraddittori, l’eccesso della oralità e del gesto e l’avarizia, sono presenti entrambi in me. Perché nonostante io opti per la soluzione barocca, per la torrenzialità dell’espressione, in fondo ricorro quasi inconsapevolmente a una estrema rarefazione attraverso un gioco di metafore allusive e lasciando dei vuoti che poi deve essere il lettore a colmare. È un po’ la condizione propria del fare poetico». La logica dietro l’apparente schizofrenia è così svelata. Conducendoci ad una dolce verità.

In Sicilia è la vita stessa ad essere romanzo, poesia. È la vita stessa ad essere il frutto spirituale di un’attitudine che sgorga naturalmente da ogni espressione del nostro corpo. Quello siciliano è sì un Barocco che sa essere travolgente e caloroso, ma lo è anche in una maniera del tutto personale, intima, silente, talvolta riservata. In questa ricchezza risiede il segreto di tanti capolavori prodotti dalle fucine letterarie siciliane: non nel tentativo di riconciliarle forzosamente, artificiosamente, ma nel celebrare la loro naturale alternanza, la loro medesima dignità, il loro salutare – e senza esclusione di colpi – confronto. Nella certezza che, spesso, il travaglio è l’anticamera della genialità.

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