Lombardo Radice,
lo studioso siciliano che rivoluzionò la scuola ma fu bloccato dal Fascismo

Insegnare attraverso l’arte, educare l’anima e suscitarne l’interesse con la bellezza, studio del dialetto come passo per conoscere gli altri volendo prima bene a se stessi, una nuova figura di insegnante non più come autorità da temere ma come compagno di vita e di conoscenza degli allievi. Sono tutte intuizioni di un grande conterraneo che ancora oggi ci indica la strada e che fu tagliato fuori perché scomodo al regime

Avete presente cos’è un what if? Nell’ambito della cultura pop, legata a serializzazioni fumettistiche o cinematografiche, si tratta di un’operazione che immagina l’esistenza di universi alternativi, e mai verificatisi, rispetto allo svolgimento principale degli avvenimenti della trama ufficiale. Fare un po’ di storia con i “se”, insomma, per citare un libro di Robert Cowley che recava questo titolo. Questo tipo di immaginifiche considerazioni non riguarda, però, soltanto la finzione letteraria, ma la storia stessa nella sua interezza. Cosa sarebbe successo, in fondo, se Napoleone avesse prevalso contro le altre potenze? Che Europa avremmo se l’avanzata turca del XVI secolo non si fosse fermata alle porte di Vienna? Esisterebbe la scienza moderna senza Galileo? E tanti altri interrogativi potrebbero essere elencati ulteriormente, tutti ancor più affascinanti se considerati nel loro risvolto inespresso. Ce n’è uno, in particolare, però, che ci riguarda da vicino, perché prendendo le mosse dalla nostra Sicilia avrebbe potuto riverberarsi su tutta la nazione, se le circostanze storiche non fossero state sul punto, disgraziatamente, di prendere tutt’altra piega. Siamo a Catania, nel biennio 1923-1924, e Giuseppe Lombardo Radice, famoso filosofo e pedagogista, insieme all’allora ministro dell’istruzione Giovanni Gentile, è artefice di una grande riforma del mondo scolastico che, benché dotata di contenuti rivoluzionari e promettenti, ebbe vita brevissima. Cosa sosteneva questo progetto educativo-didattico?

In un Vecchio Continente appena uscito dalle sabbie mobili della Grande Guerra, l’Italia, come spesso si è verificato, denotava un certo ritardo rispetto ai grandi centri di cultura europei e il campo pedagogico non faceva certo eccezione. Eppure, in un contesto difficile alla ricerca di nuovi riferimenti, un nostro conterraneo emerse come una delle voci più autorevoli e lungimiranti tra gli intellettuali nostrani. In opere come Lezioni di pedagogia generale o Lezioni di didattica e ricordi di esperienza magistrale, o nei contributi scritti insieme a Gentile nella rivista da loro fondata Nuovi Doveri, infatti, Lombardo Radice mostrò una sensibilità non comune nel percepire i bisogni educativi più impellenti per le nuove generazioni di studenti, nonché nel tratteggiare il necessario rinnovamento nella figura dell’insegnante e del suo approccio alla trasmissione del sapere. Lo studioso catanese partiva da un assunto che forse, oggi, diamo per acquisito, ma che all’epoca somigliava ad un vero e proprio sisma culturale: la scuola non è, e non può essere, il luogo dell’imposizione, del nozionismo inculcato a forza nelle menti degli apprendenti, dell’autorità incontestabile e terrificante che condiziona il processo di formazione dei giovani. Piuttosto – e qui risiede gran parte della sua finezza teorica – l’incontro studente-insegnante deve assumere la conformazione di una fruttuosa collaborazione, di un percorso da percorrere a braccetto alla ricerca di un sapere che non è mai fisso e per questo figlio soltanto di un punto di vista parziale, ma sempre in divenire, sempre meta nuova da raggiungere.

È per questo, secondo Lombardo Radice, che non è lo studente a doversi adattare all’istituzione scolastica e ai suoi capricci, bensì l’esatto opposto: è la scuola, per mezzo delle figure che la popolano, che deve sforzarsi di innescare la scintilla dell’interesse, la cultura del continuo miglioramento e della ricerca instancabile come modus vivendi. Educare, insomma, a coltivare il dubbio e a non accontentarsi delle certezze superficiali. Il nostro studioso, inoltre, aveva le idee abbastanza chiare a proposito dell’ausilio didattico da utilizzare per giungere a questi risultati: l’arte e la sua bellezza, con la loro fascinosa attrattività e capacità di suscitare desideri grandi e puri. Una scuola che conduce e insegna attraverso l’espressione artistica dell’anima: una vera utopia, perfino per i giorni nostri, a volte. Come se non fosse abbastanza, fu ancora a lui ad immaginare un’integrazione ai programmi ministeriali in cui il dialetto di ogni regione avesse il suo spazio, perché solo comprendendo le proprie radici, comprendendo se stessi, si può entrare positivamente in contatto con gli altri.

Ma, come dicevamo, a volte i what if sono migliori della storia reale. L’anno dopo, nel 1925, il regime fascista consolidò in modo irreversibile il suo potere e il suo consenso. Nello stesso anno, e per quello successivo, le tristemente celebri leggi fascistissime misero fine all’esperimento dell’accoppiata Gentile-Lombardo Radice e diedero il via all’omologante e coercitivo progetto ideologico ed educativo del regime. I due furono progressivamente allontanati dai quadri dirigenziali e il loro contributo annullato. Dopo il Ventennio, la scuola italiana fu costretta a ripartire da zero. A lei, e ancora a noi, resta solo un “se” e il rimpianto per ciò che non è stato e, spesso, continua a non essere.

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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