Il prete di Brancaccio veniva ucciso 26 anni fa da coloro che temevano il suo seminare speranza col sorriso. Ma i suoi frutti oggi sono maturati e hanno il volto di tutti quei ragazzi cresciuti e salvati dal tempo che lui dedicò loro. Perché sapeva che pace e libertà, una volta sparse, possono combattere odio e cattiveria

Per fare del bene non aveva bisogno di indossare una maschera. Il suo costume era piuttosto semplice e quasi di un’unica tinta. Gli bastavano un abbraccio ed un sorriso per cambiare le vite di chi si imbatteva in lui. Eppure rimase a lungo trasparente agli occhi della gente comune, un illustre sconosciuto che da solo combatteva i demoni dell’emarginazione, del degrado, della schiavitù. Sconosciuto, almeno fino a quando, nel giorno del suo 56° compleanno, in quel maledetto 15 settembre del 1993, un vile colpo di pistola alla nuca non lo fece rimbalzare sulle pagine di tutti i giornali. Don Pino Puglisi era fatto così: non cercava i riflettori, schivava i teatrini e gli atteggiamenti preconfezionati, puntava a ciò che di più prezioso gli esseri umani, nel suo caso i ragazzi, possiedono: il loro cuore. Fu questo, paradossalmente, a farlo divenire l’osservato speciale di qualcuno che credeva che il cuore potesse essere soggiogato, soffocato, inaridito. Perché Don Pino, nel triste grigio di Brancaccio, aveva mostrato uno squarcio di arcobaleno, la possibilità di disegnare orizzonti nuovi anche su una tela erosa e frammentata. Sapeva che ogni istante di questa vita è un’occasione da far fruttare, un viaggio da compiere insieme a qualcuno, una storia a lieto fine da scrivere.

Leonardo Sciascia disse che la mafia non si combatte a suon di slogan efficaci e manifestazioni di piazza. Scrisse anche sui cosiddetti professionisti dell’antimafia, invitando piuttosto a guardare coloro che, in un quotidiano e assordante silenzio, donavano la loro vita per arricchire quella altrui. Fu massacrato, accusato quasi di connivenza. La storia, però, restituì tutt’altra verità rispetto a quella che i detrattori sciasciani cercavano di dipingere con fervore. Don Pino, di quell’azione tutt’altro che mediatica, fu il simbolo più splendente. La sua affabilità, la sua mitezza, il suo credere fermamente che il riscatto può essere agguantato oltre ogni lacrima, oltre ogni povertà, oltre ogni imposizione, lo resero un’insospettabile e inarrestabile bandiera di solidarietà. Perché, in fondo, come si combatte la pace? Come si combatte qualcosa che cresce alla stessa velocità dell’odio, ma con più forza di incisione, di permanenza? Padre Pino trovò la morte per questa ragione: non solo perché sottrasse alla criminalità organizzata buona parte di quella manovalanza infantile che tanto veniva utilizzata; non solo perché insegnò a molti giovani la strada per la conquista del futuro; ma anche perché i suoi nemici non sapevano come contrastarlo, impotenti di fronte alla salvezza che si spargeva sussurrata. Pensarono che la fine della sua vita potesse coincidere con la fine del desiderio di libertà dei suoi ragazzi. Fecero male i conti. Ancora oggi la scommessa di Don Pino resiste imperterrita, se possibile con forza ancora maggiore. Su quel segno che lui ha tracciato, altri, con l’appoggio del suo modello, hanno intrapreso la stessa via.

Don Pino è stato una sorta di uomo del futuro. La sua lungimiranza, nel contesto di finitezza e incompletezza in cui si trovò ad agire, rappresentò una spinta quasi senza precedenti. Scommise non sui grandi, che spesso non sanno guardare più in là del proprio naso, troppo impegnati a crearsi problemi da soli, ad autoconvincersi di non essere in grado di fare la differenza, ma sui piccini, sull’innocenza che indaga il mondo e ne coglie le frustrazioni, sull’energia di coloro che quel mondo, una volta scoperto come contenitore di cose anche belle, volevano prenderlo a morsi, sconvolgerlo, renderlo più simile alle loro aspirazioni. Non c’è futuro se priviamo il presente dei suoi protagonisti, se non ci impegniamo a debellare la logica del “tu devi” in favore dell’utopia del “io posso”. Don Pino viveva questo sogno come un dogma morale, come una responsabilità diretta ed ineludibile e sperava che altri si unissero a questo progetto piccolo nelle dimensioni ma grande umanamente. A Brancaccio non c’era la scuola, era più facile che i bambini possedessero una pistola che una bicicletta e l’autodeterminazione era un concetto sacrificato sull’altare delle logiche di potere. Ma a Brancaccio c’era pure Don Pino. Ed era una certezza, un faro di speranza, che ha brillato fino all’ultimo secondo. Ora la sua luce, la luce di quella scommessa, è in mano a chi ogni anno ne ricorda le gesta. Per fare in modo che questa fiamma non si spenga, non è necessario gridare. Il bene, a volte, può anche essere invisibile agli occhi, ma essenziale nel suo intento.

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