Sciascia, i potenti e il dominio sull’informazione: storia di un Cavaliere che sapeva troppo
C’era una volta un cavaliere errante. Era nato dalla penna di Leonardo Sciascia, pochi mesi prima che morisse. Vice era il suo nome: e già nel destino di quell’onomastica sembrava che tutti i suoi sforzi lo conducessero comunque ad arrivare sempre secondo. Ad essere subordinato in maniera ineluttabile a qualcosa di più grande. Portava sempre con sé, ogni volta che veniva trasferito da un ufficio all’altro, l’incisione che Albrecht Dürer aveva realizzato nel 1514, Il cavaliere, la morte e il diavolo. Si sentiva un po’ come quel baldo guerriero che in sella al suo cavallo, pur affaticato per il lungo viaggio, rimane impassibile nel suo transito dinanzi alla Signora della Falce, non curandosi del demonio che lo pedina con una sinistra alabarda. Perché Vice, anche lui, con la morte aveva un appuntamento. Era malato di cancro. Ma a lui non importava più di tanto. Non smetteva di percorrere il suo cammino, perché sentiva che c’era ancora, sempre, un passo in più da compiere. E forse proprio per questo continuava imperterrito a fare il commissario di polizia: per dimostrare che la verità e la giustizia, anche quando appaiono sotto forma di flebili fiammelle, alla fine possono rischiarare le tenebre del malaffare. Con il medesimo spirito si era incaponito nella sua ultima indagine, che oggi leggiamo in Il cavaliere e la morte. Si era messo in testa che l’omicidio dell’avvocato Sandoz non fosse così semplice come i media – e il suo stesso capo – lo avevano descritto. Li aveva visti, Vice, scambiarsi un biglietto sospetto. Sandoz e il potente imprenditore Aurispa. Tutti conoscevano i burrascosi trascorsi di quest’ultimo con la legge: ma chi gli avrebbe creduto? A quale processo avrebbe potuto consegnare come prova le mezze confessioni di testimoni terrorizzati? Chi lo avrebbe collegato a quel delitto che era già stato bollato come responsabilità dei Figli dell’ottantanove?
Già, i Figli dell’ottantanove. Una temutissima e sotterranea organizzazione terroristica che, come un onnipresente puparo, tirava i fili della società a suo piacimento. Almeno così la dipingevano coloro che ne sostenevano l’esistenza senza alcun elemento concreto. A Vice, però, qualcosa non tornava. Mentre gli altri lo tacciavano di battersi contro i mulini a vento, il prode commissario aveva intuito che forse, in fondo, si trattava di una montatura creata ad arte. Di una sofisticata strategia di depistaggio, certo. Ma soprattutto di una sottile manipolazione, di una dimostrazione su quanto i potenti, talvolta, riescano persino a riscrivere la storia. Nella sua brama di fare la cosa giusta, il cavaliere aveva perso di vista che il suo male personale non era troppo diverso da quello che fronteggiava tutti i giorni con la sua divisa. Anzi, era ne era il riflesso, il sintomo somatizzato. L’estensione tentacolare e soffocante di una corruzione morale ormai troppo estesa per essere eradicata. E così, mentre i suoi sospetti convergevano sempre più verso Aurispa, tutti si affrettavano a provarne l’innocenza, a trovare cavilli per scagionarlo, a mettere insieme piste ed indizi anarco-insurrezionalisti. Ma davvero – pensava tra sé e sé Vice – Sandoz era finito al centro di questo turbine di eventi? O la sua morte era servita proprio per giustificare la nascita fittizia dei Figli dell’ottantanove? Vice conosceva la risposta. Ma, prima che se ne accorgesse, il tempo dei cavalieri, delle rette e magnifiche imprese, si era ormai eclissato. Restava solo l’acre puzzo della polvere da sparo. Il suo corpo inerme adagiato sul ciglio di una strada deserta. Il silenzio assordante della sua dipartita.
Il cavaliere se ne andava così. Con la soluzione riposta nel taschino come un santino sbiadito. Con il ricordo che si perdeva nel vento della notte. Senza aver realizzato che quel gioco fatale e perverso tra potenti non era l’eccezione, ma la regola. Senza aver intravisto, nell’amata e perturbante incisione che campeggiava nel suo ufficio, qualcosa di più torbido che un modello a cui aspirare. Era una triste profezia sul destino delle comunità e degli abitanti che le popolano, il de profundis dell’uomo che si lascia indietro il diavolo perché non ha più bisogno di lui per compiere il male. Un beffardo palcoscenico in cui la morte assiste alla cadenzata sfilata dei giusti. La storia di un cavaliere sconfitto perché disarmato. Che non voleva arrendersi a un fatto conclamato: vince chi possiede e veicola dati e informazioni. Chi li manipola con scaltrezza per dire senza dire, per colpire gli altri nei loro punti deboli. Chi le centellina con fare fraudolento per averne un ritorno a scapito di qualcuno. Chi si spaccia per aiutante mentre dietro le quinte veste i panni dell’antagonista. E c’è un solo argine a questa deriva: tenere a mente quell’incisione. Tirare nuovamente le briglie e spronare la marcia del cavallo. Accompagnare il cavaliere nelle sue peregrinazioni. E se, cade, non rinunciare a prendere il suo posto.