C’era una volta la Catania Rock, il fenomeno musicale esploso negli anni Ottanta che portò alla creazione del paragone fra la città etnea e Seattle per il proliferare delle band e di locali dove era possibile suonare. Se dalla West Coast americana nascerà una importante corrente nella storia del rock, ovvero il grunge, all’ombra del Vulcano saranno tante e diverse le anime: da quella rockabilly dei Boppin’ Kids alla new wave british dei Denovo, dalle fascinazioni americane di Francesco Virlinzi, dalle quali deriveranno Flor e Carmen Consoli, alle nicchie “noise” degli Uzeda e anarchiche di Cesare Basile. È in questo crogiuolo di gruppi e di suoni che nascono i Cöftua, «un nome inventato, un suono che non significa nulla», che presto cambierà una vocale per diventare Caftua.

Nella prima versione fecero la loro comparsa nel 1986 nella compilation 095 Codice interattivo prodotta da Rock 86. «Noi, in quel contesto, eravamo un ibrido», ricorda Orazio Russo, uno dei fondatori della band. «Strizzavamo l’occhio alla dark wave, avevano sonorità più scure. Eravamo un po’ più commerciali. Furono anni indimenticabili».

Da allora fino al 2013 i Caftua hanno continuato a calcare i palchi di tutt’Italia, pubblicando nel 1991 l’album Esodo, nel quale debutta una cantante promettente dal nome di Carmen Consoli, seguito da Sotto il vulcano, che vede la partecipazione dell’ex Denovo Luca Madonia. La loro popolarità è tale che, secondo una leggenda metropolitana, i loro dischi sono ricercatissimi dai collezionisti giapponesi. «È una storia che è nata dopo aver collaborato con un artista, Fuxia, che poi divenne l’immagine della Mucca Assassina di Roma», ricorda Russo. «Si dice che alcuni nostri provini erano stati cercati in Giappone. Se sia realtà o fantasia, non lo so. Non mi sentirei di confermarlo…».

Nel 2013 la band entra in studio per registrare il nuovo album, intitolato Cambio direzione, ma il disco non uscirà e la formazione più longeva della storia del rock catanese decide di porre un punto. «Volevo mettere la mia faccia, espormi in prima persona», spiega Orazio Russo. Insomma, decide di intraprendere la carriera solista. Firma un contratto con l’etichetta etnea TRP Vibes e comincia a pubblicare i primi singoli che entro giugno andranno a comporre il suo primo album sotto la supervisione di Riccardo Samperi. Tre gli inediti – i già pubblicati Greta e Il tempo che non torna, e Gennaio, un eterno lunedì in uscita a metà maggio – e i brani di Cambio direzione che non hanno mai visto la luce, fra i quali Vado Via, appena edito.

«Con Riccardo Samperi si è pensato di stampare quel lavoro rimasto interrotto nove anni fa. Abbiamo ripreso quei pezzi, aggiornandoli, e finiranno sul disco. Ma è allo studio già un secondo album, questa volta composto da brani tutti nuovi e con un orientamento più acustico».

Quindi non si è interrotto il legame fra Orazio Russo e i Caftua?
«Tutt’altro. Anche perché ho sempre scritto io i brani. Inoltre, qualcuno della band è rimasto nel team di lavoro. Lo stile è sempre quello, il background è quello definito dalla passione per gruppi inglesi della new wave anni Ottanta-Novanta, Church, Sound, Opposition, Depeche Mode. Poi Riccardo mette la ciliegina sulla torta».

Se lo stile non è cambiato, è mutato lo scenario. Com’è oggi Catania rispetto agli anni in cui cominciò a fare i primi passi da musicista?
«A quel tempo la città aveva una identità ben definita. Tutta Italia vedeva Catania come una capitale della musica, la conosceva per il proliferare di idee e di artisti emergenti. Oggi è una città appiattita, morta. In quegli anni, se proponevi una cover, ti guardavano male, adesso è tutto diverso: vengono cercate le cover band. Negli anni Ottanta e Novanta nei pub scoprivi nuove realtà, adesso ovunque vai ascolti brani di Pino Daniele, Coldplay, U2. Allora meglio restare a casa e ascoltare i dischi».

Colpa soltanto dei gestori dei locali o sono cambiati anche musicisti e pubblico? I primi vanno alla ricerca solo del successo e del guadagno, il secondo ha perso la curiosità della scoperta.
«Colpa dei gestori dei locali, colpa anche del pubblico, che va educato dai gestori dei locali, e colpa dei musicisti che si svendono per pochi soldi. Quando ho cominciato a suonare io, i gestori dei locali erano quasi dei piccoli talent scout. Io non sono mai sceso a compromessi, continuando a fare la mia musica in libertà, con autoproduzioni. Oggi, fondamentalmente, manca la cultura musicale».

È lo specchio del panorama musicale nazionale, vedi l’imbarazzante Concertone del Primo Maggio a Roma.
«Una volta c’erano più locali, c’era più voglia di rischiare. Oggi devi sperare nelle piattaforme social, che però sono terreno soprattutto per artisti ventenni che fanno trap o rap. È vero, è stato scioccante lo spettacolo del Primo Maggio. Se quella è la nuova musica italiana, siamo messi davvero male. Una volta c’erano i Litfiba, Almamegretta, adesso dilaga la mediocrità. Ancora peggio in tv, ho dato un occhio al nuovo format The Band con Carlo Conti, sembra la sagra della salsiccia con gente al limite del ridicolo. Oggi le etichette discografiche puntano su qualche ragazzino/a dal faccino pulito, lo spremono fino al midollo e poi lo scaricano. Pochissimi ce la fanno. Stiamo toccando il fondo, ma penso che ci potrà essere una risalita».

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