L’artista siciliano in Australia: «Canto in dialetto dall’altro capo del mondo»
All’altro capo mondo – esattamente all’altro capo del mondo da noi – tutte le cose sono, lo sappiamo, alla rovescia. Nelle acque di un arcipelago che i primi abitanti Maori avevano chiamato la terra della lunga nuvola bianca, una barca italiana, guidata dal palermitano Ciccio Bruni, il Louis Hamilton del mare, ha tentato di strappare la Coppa America ai neozelandesi. E sulla baia di Sydney, dominata dall’iconica Opera House e una volta solcata dalle barche degli aborigeni, un musicista di Catania, Maurizio Chisari, vuole conquistare il pubblico cantando in dialetto siciliano. All’altro capo del mondo tutto è alla rovescia. Gli americani siamo noi.
«La comunità italiana è molto visibile e ricca», dice l’artista etneo in collegamento whatsapp dall’altro capo del mondo. «Il quartiere italiano di Sydney, Leichhardt, è molto elegante e contiamo di suonarci in settembre. Ancora si trovano emigranti di prima generazione, vengono dalla Sicilia, dal Veneto, dalla Calabria. In Australia il nostro Paese gode di un certo fascino. Sono in molti a studiare la lingua, ci sono corsi serali di italiano, come da noi di inglese, e sono frequentati anche da adulti. L’Italia è simbolo di moda, eleganza, cibo, e termini italiani li leggi nelle strade, vengono usati spesso nelle insegne dei negozi. Mi sento a casa qui, anche il clima è perfetto: c’è quasi sempre il sole».
La decisione di Maurizio Chisari di lasciare l’Italia per andar in Australia non è per gli stessi motivi che spinsero circa centomila siciliani, tra gli anni Cinquanta e Settanta, a lasciare il Vecchio per il Nuovo Continente in cerca di fortuna. Né è partito per l’altro capo del mondo per andare a cercare l’onda perfetta da cavalcare con una tavola di legno. «L’Australia è arrivata per caso», racconta. «Sentivo l’esigenza di resettare quanto avevo fatto in campo musicale, di cercare nuovi stimoli per ripartire. Avevo bisogno di un gesto estremo. Ma la terra dei canguri era l’ultimo posto dove pensavo di andare. Il caso ha voluto che nel luglio del 2019 mi si aprisse un’occasione per realizzarmi in quello che è il mio secondo mestiere di preparatore atletico per danzatori. E poi ci sono rimasto, avviando anche una mia attività e ricostruendo un mio habitat musicale con artisti americani e locali».
Complice anche la pandemia, combattuta dal governo australiano con la chiusura delle frontiere, da quasi due anni ormai non rivede il suo Paese. «Ci hanno chiusi dentro, non possiamo uscire: se fossi rientrato in patria non sarei più potuto tornare in Australia», sorride Maurizio.
Da Belpasso, dov’è originaria la sua famiglia, e da Catania manca da dodici anni. Dieci dei quali trascorsi in Veneto. Una carriera musicale con lo pseudonimo di Maurizio Chi vissuta, come tanti suoi colleghi, tra concorsi e premi, alcuni dei quali vinti, come Area Sanremo nel 2011 nella sezione per canzoni dialettali e “Genova per noi” nel 2016 che gli ha aperto le porte dell’Universal Music Publishing come autore. «Un’esperienza che mi ha fatto crescere», ricorda. «Soprattutto mi ha fatto mettere a fuoco la mia personalità. Ho capito che non volevo fare più musica pop». Una vena popolare, folk, dialettale, già serpeggiava nell’album d’esordio Due del 2016 nel brano A’ comu jè gghiè. Esplode dall’altro capo del mondo. «Ma non è la nostalgia dell’emigrato, anche perché non mi sento tale», tiene a sottolineare Maurizio. «Ho ritrovato il mio modo di essere siciliano a migliaia di chilometri di distanza. Volevo esprimere la mia storia, il mio background». Un retroterra culturale che si può ascoltare nella playlist che ha composto su Spotify: tutti brani in dialetto di popolari artisti contemporanei siciliani.
A fargli imboccare la nuova strada, paradossalmente, è stato un musicista locale, Luke Wright, chitarrista e mandoloncellista, «forse l’unico in Australia», di nonna liparota. «Me lo presentò un amico», ricostruisce Maurizio. «Luke parlava perfettamente italiano e anche siciliano, perché affascinato dai racconti e dai canti della nonna. Abbiamo cominciato a chiacchierare, poi a provare, a sperimentare. Luke è stata la scintilla, la coincidenza che mi ha dato il suggerimento e il coraggio di portare avanti la mia scelta».
A 37 anni Maurizio finalmente si libera della gabbia e riesce a dare libero sfogo alla sua creatività e alla sua ricerca musicale. La jaggia è il singolo che annuncia l’album della svolta, in uscita il 21 maggio con il titolo D’amuri e raggia, già accennato nell’anticipazione: “L’aceddu chiusu rintra la só jaggia / sí nun canta l’amuri canta raggia”. «Otto tracce, tutte diverse, dai suoni epici, naturali», annuncia. «Nessun computer, nessuna traccia di elettronica, soltanto strumenti classici, nulla di digitale. Temi autobiografici, fatta eccezione per le più “sociali” Maliditta ignuranza e L’ossa co’ sali».
Un album in dialetto siciliano per il mercato australiano sembra una mission impossible. Ma all’altro capo del mondo tutto è alla rovescia. E gli americani siamo noi. «È un disco rivolto a tutte le persone che non fanno discriminazioni in base al linguaggio», sfida Maurizio. «Se io ascolto musica in inglese, portoghese e spagnolo, pur non conoscendo tutte queste lingue, perché qualcuno non dovrebbe ascoltare canzoni in siciliano? È la musica che deve traghettare i sentimenti delle persone. E, poi, spero che i miei pezzi finiscano nel songbook siciliano, nell’archivio storico della canzone dialettale».
Rispetto ai suoi colleghi italiani, Maurizio Chisari avrà la possibilità di presentare “live” il disco, all’aperto come al chiuso. La linea dura del governo australiano ha, infatti, i suoi lati positivi: non puoi uscire dal Paese, ma da casa sì e puoi andare dove vuoi. «Qui è tutto “open”: i teatri ed i cinema sono aperti, così sale da ballo e ristoranti. I festival hanno ripreso, così pure i musical e i concerti. Certo, basta un solo caso e scatta per quattro mesi un lockdown locale. Finora, con questi metodi, sono riusciti a contenere la pandemia. C’è qualche problema per il vaccino Astrazeneca anche qui, sia perché l’Italia ha bloccato l’esportazione, sia perché le persone non si fidano e molti lo rifiutano. Io spero al più presto di farlo per ottenere il passaporto vaccinale e riconquistare la libertà di viaggiare per tornare in Sicilia e farmi una ricarica di granite».