Il favorito della Regina: Sebastiano Guzzone, la bellezza di scrivere con il colore
Non tutti ricordano le gesta dell’artista originario di Militello in Val di Catania, che nella seconda metà dell’Ottocento fu il collante tra Verismo e Romanticismo, tra il lirismo italiano e l’Impressionismo francese. Prima di ogni lavoro, amava studiare, documentarsi, ampliare i propri orizzonti tra filosofia, musica, storia, letteratura e tradurle in pennellate. Un episodio, a Roma, lo consegnò alla leggenda (e all’attenzione di Margherita di Savoia)
Roma, 1885. Una folla festante e ansimante ha trasformato le strade della capitale in una centrifuga di colori, balli e cori sguaiati. Sembra quasi che le pagine di Dumas abbiano preso corpo. Solo che a sfilare in occasione di quel celebre Carnevale che tutto il mondo conosce non è Edmond sotto le mentite spoglie da conte, e nemmeno Franz. Ma un’intera comunità libera, per un giorno, di sovvertire le regole, di camuffarsi, di sognare. Tra le meraviglie acrobatiche della parata, d’improvviso a farsi largo è un imponente carro allegorico. Due telamoni, affaticati all’angolo del palchetto che sormonta e copre le ruote, sorreggono quella che appare essere come una grande conchiglia, a sua volta adornata di piante. Quel carro altro non è che la rappresentazione della Sicilia. La meraviglia si sparge tra gli astanti. In quel caleidoscopio di improbabili mascherate e scenografie pompose, è quella l’immagine che lascia il segno. Per il concorso che deve decretare il carro più suggestivo della rassegna non c’è partita: il primo premio va proprio all’omaggio per la Trinacria. Sono in tre ad averlo realizzato: l’architetto Ernesto Basile, il pittore Salvatore Franciamore e soprattutto Sebastiano Guzzone, pittore anch’egli, nato e cresciuto a Militello in Val di Catania. Il suo nome, che già per le strade di Roma si era fatto notare per via di una strabiliante abilità nel disegno, è ormai giunto alla definitiva consacrazione. Persino la Regina, Margherita di Savoia, consorte di Umberto I, rimane ammaliata da quel pezzo di bravura e si premura di far giungere al Guzzone i suoi più sinceri apprezzamenti. Una manifestazione di affabilità che l’artista non tarderà a ricambiare, porgendo in dono alla sovrana un tamburello decorato con la tecnica dell’acquerello, di cui egli è indiscusso maestro. È forse a questo aneddoto che la parabola umana ed artistica del militellese è più legata. Forse perché, dopo la morte avvenuta cinque anni dopo quel grande riconoscimento, il suo nome si ritrasse poco a poco dalle luci della ribalta. E la sua arte, così peculiare nell’iconografia e nell’ispirazione, con esso.
Molte delle informazioni che si possiedono sulla sua figura, del resto, derivano da alcuni inventari che furono redatti all’indomani della sua scomparsa per catalogare gli oggetti ritrovati nel suo studio. Un elenco incompleto, certo – ritrovato per altro in uno stato tutt’altro intonso – ma pur sempre prezioso per ricostruire l’orizzonte culturale di un uomo sofisticato e appassionato. Grande conoscitore del mondo transalpino, fu amico di Felix Nadar, il fotografo al quale si deve, in una certa misura, la nascita del movimento impressionista, e attento studioso delle tendenze più interessanti. Ma fu, soprattutto, un pittore dalla vocazione letteraria. Dalle carte e dai resoconti emersero testi di grande levatura. Una delle sue opere più celebri, La morte del Petrarca, venne ad esempio realizzata dopo un attento studio delle sue vicende biografiche. E poi libri di storia, di teologia, di Pascal, di Vico. Nulla sfuggiva alla sua vorace curiosità. Che poi, puntualmente, finiva per tradursi, per sbocciare nella pittura. Per suscitare commozione, sorpresa. A questa medesima attitudine, evidentemente, andava addebitata la presenza, tra i suoi effetti personali, di guide turistiche ed itinerari geografici. Ma anche, e più di tutto, una corposa collezione di costumi d’epoca, con i quali rivestire ed indagare in ogni dettaglio i modelli delle opere a sfondo storico. Più che semplici tele, insomma: ciò a cui Guzzone aspirava era quasi un trionfo della teatralità, un’intensità lirica che sfiorasse quella del melodramma. Melodramma di cui egli fu fervente ammiratore, se è vero che tra i suoi possedimenti risultavano anche parecchi spartiti. Un ingegno poliedrico, dunque, quello dell’artista isolano. E per questo, probabilmente, difficile da inquadrare, da circoscrivere. E, in un certo senso, anche da trasmettere.
Perché, in fondo, Guzzone fu un po’ romantico e un po’ verista, con le sue vedute e i suoi ritratti. Fu un po’ macchiaiolo e un po’ impressionista. Fu uno scenografo della luce, un scrittore del colore. Un salottiere che tutti facevano a gara per frequentare. Un pensatore sempre dedito a rimestare nella propria memoria. Nella propria sensibilità. Profondamente, oniricamente siciliano.
(Fonte: https://siciliabellissima.altervista.org/2021/03/13/sebastiano-guzzone-1856-1890-un-pittore-siciliano-nei-primi-anni-dellunita-ditalia/?doing_wp_cron=1740862456.0515120029449462890625)
