«Il potere non può condannare sé stesso»: Sciascia ed i gialli senza colpevole
«Posso dubitare della realtà di tutto, ma non della realtà del mio dubbio». Bertolt Brecht sapeva certamente come vestire i panni del provocatore. Ma persino per lui, di primo acchito, questo genere di considerazione pare fin troppo difficile da digerire. Per farlo, d’altra parte, bisognerebbe fare i conti con un concetto di verità sfuggente, insidioso, traballante. Se anche la certezza si rivela inadeguata, a cosa aggrapparsi? Se il presunto vero diventa vittima di manipolazioni o di imposizioni, su cosa fondare il nostro agire civile ed etico? Potrebbe mai una collettività assumere, come fondamento della propria convivenza, la scomoda abitudine di porre delle domande? Prendiamo, ad esempio, il caso della giustizia: nessuno potrebbe mai mettere in dubbio la buonafede di un pronunciamento legale o la coerenza logica di un’indagine, men che meno l’individuazione univoca di un colpevole. Ne va quasi della nostra identità. Proprio su questo si basa la grande maggioranza dei romanzi gialli che il pubblico tanto ha imparato ad apprezzare: da Poe a Conan Doyle, da Simenon a Camilleri, il presupposto fondamentale di tali opere è che l’ordine naturale sia destinato ad essere ripristinato. Che i malfattori vengano inchiodati alle loro responsabilità. Che, insomma, la penombra del malaffare sia spazzata via dal bagliore dell’onestà. Fortuna che esiste la letteratura a ricordarci di non dubitare mai, dirà qualcuno. Senza tuttavia aver fatto i conti con il nome mancante in questa lista di scrittori-detective: Leonardo Sciascia. A ben guardare, infatti, i gialli sciasciani si concludono sempre in maniera piuttosto ambigua: talvolta non si riesce ad incastrare il responsabile dell’omicidio, altre volte la pista investigativa, pur rivelandosi valida, viene sapientemente ostacolata fino alla sua archiviazione. Una sorta di paradosso contraddistingue la produzione poliziesca dell’autore di Racalmuto, all’interno della quale la verità è solo un accessorio di una trama ben più complessa e ingannevole. Lo è ne Il giorno della civetta (1961), al termine del quale don Mariano Arena viene scarcerato e il quadro delle prove smontato; lo è in A ciascuno il suo (1966), in cui il professor Laurana viene fatto fuori per aver scoperto la tresca assassina tra l’avvocato Rosello e la conturbante Luisa, mandanti dell’uccisione del marito di lei, il dottor Roscio; e lo è, se possibile ancora di più, in Il contesto (1971), che vede la morte dell’ispettore Rogas, brillante investigatore che arriva ad un passo dal fare luce su una serie di morti eccellenti nel mondo della magistratura salvo poi essere stritolato dall’inquietante scoperta di intrighi e complotti ai piani alti. È una verità fragile, frammentata, aggrovigliata come un gomitolo. Fioca ed intermittente sul fondale reso torbido da depistaggi e omissioni. Una condizione decisamente e distintamente siciliana, certo, ma al tempo stesso tristemente italiana (come poi confermerà anche L’affaire Moro del 1978). Se il poliziesco è riflesso della realtà, il dietro le quinte si può solo intuire, ma non affermare. Lo disse anche Vincenzo Consolo, parlando con l’amico Sciascia proprio del suo singolare approccio alla giallistica:
Un dato di fatto che negli anni ha confermato la sua validità, arrivando sino agli eclatanti casi giudiziari che recentemente hanno animato l’opinione pubblica, rimasta amareggiata dagli esiti di alcuni processi che promettevano sconvolgenti verità e che, gattopardianamente, si sono risolte in un nulla di fatto. Cosa resta, allora, dinanzi alle verità annacquate? Il dubbio, appunto. Lo stimolo a rimanere vigili ed incontentabili esploratori di contraddizioni, scettici contestatori delle versioni di comodo, inflessibili difensori del diritto. Il potere non può autocondannarsi. Ma a noi è ancora concessa, la presa di distanza, l’indignazione. Noi, almeno moralmente, possiamo e dobbiamo farlo.