Esistono dei luoghi, nella vita di ognuno di noi, che sono misteriosamente destinati ad intrecciarsi con il nostro cammino. Luoghi talmente affini alla nostra sensibilità da apparire quasi, una volta scoperti, perfette incarnazioni di sogni reconditi e sconosciuti persino a noi stessi. Si riconoscono per la loro incomunicabile magia, per l’abilità con cui riempiono i vuoti che non sappiamo di avere, per l’incontenibile misto di gioia e amarezza che si impossessa dell’ammirato viaggiatore nell’istante del distacco. Si stagliano dinanzi agli occhi come conferme a lungo ricercate, come catalizzatori di aspettative quasi secolari, che congiungono l’esperienza del singolo alla grande epopea collettiva della storia umana. Qualsiasi luogo, potenzialmente, è in grado di ricoprire tale ruolo. Ma alcuni, portatori di straordinari marchi di unicità, lo sono inevitabilmente più di altri. E tra questi non può certo mancare la Sicilia, che da sempre, nonostante le tribolazioni, ha saputo innescare un’affinità elettiva con tutti gli avventori che, più o meno casualmente, hanno calcato le sue suadenti sponde. A questa schiera di illustri figure non tutti sanno che, in un frangente ben preciso della propria vita, appartenne anche il grande Pier Paolo Pasolini. Il quale, sostanzialmente ignaro di ciò che avrebbe trovato nel profondo Sud che ancora mancava alle sue peregrinazioni, lasciò appassionate ed incisive testimonianze di quel transito che, per sua stessa ammissione, cambiò per sempre il suo modo di relazionarsi alle cose.

Nel 1959, infatti, all’intellettuale bolognese venne affidato dalla rivista Successo il compito di realizzare un resoconto dettagliato della propria trasferta sicula: quel racconto, nato tra i sedili della Millecento a bordo della quale Pasolini percorse gli affascinanti litorali dell’isola, avrebbe poi preso l’immaginifico titolo La lunga strada di sabbia. Quella scattata dallo scrittore, intento ad esplorare ogni centimetro con l’affamata curiosità che lo caratterizzava, non fu appena la fugace diapositiva di un’estate inconsueta, ma, piuttosto, la perfetta fotografia di una terra divorata dai paradossi. Mentre l’entusiasmo del boom economico risollevava un Paese uscito a pezzi dal secondo conflitto mondiale, per le strade della Sicilia si respirava un clima di opprimente sospensione. La sensazione che un ingiustificato e ingiusto ritardo stesse stritolando le opportunità che il progresso prometteva di offrire in quegli anni febbrili. Pasolini non nascose nulla al proprio lettore: con impietosa lucidità, mise a nudo la fragilità di un territorio che a malapena si reggeva sulle vestigia della bellezza passata: «Pur con degli splendidi scorci e sfilate di strade di un barocco che pare di carne, delle cattedrali d’una ricchezza inaudita e quasi indigesta – scrisse l’autore mentre accingendosi a lasciare il messinese per approdare nel siracusano – queste città non sono belle: sembrano sempre appena ricostruite da un terremoto, da un maremoto, tutto è provvisorio, cadente, miserabile, incompleto». Nessuna consolazione. Nessuna edulcorazione. Era la Sicilia abbandonata alle proprie, ataviche ferite, quella descritta da Pasolini. La Sicilia delle macerie e delle incrostature, delle attività rurali e della faticosa sussistenza, dei viaggi della speranza di poverissimi pescatori che, mentre al Nord si moltiplicavano automobili e televisioni, si dannavano l’anima per solcare il mare con un remo malridotto. Ma fu proprio in quest’anima incorrotta, in questo disperato ma tenace attaccamento a flebili certezze, che Pasolini rinvenne l’autentica meraviglia siciliana. «Non so dire in cosa consista l’incanto: dovrei viverci degli anni. Lo dico così, da turista. Approfondendo, conoscendo meglio, non solo con gli occhi, con le narici, le ragioni di un così improvviso amore devono risultare ben vere e ben profonde». Perché, in fondo, ciò che Pasolini cercava in Sicilia era una parte di sé stesso: era l’amore per la natura e per la fatica titanica degli uomini, la lotta incessante e ribelle di uno spirito che non cede alle convenzioni, le orme di un tempo perduto che riaffiorano sommesse e prepotenti tra la miseria e le vuote prospettive del progresso.

Incontri semplici ma carichi di significato, come quello avvenuto nei pressi di Porto Palo: «Arrivo al porticciolo, dove la strada finisce contro un muretto lungo il mare: a sinistra sotto un costone giallo una decina di barche malandate, a destra una spiaggetta incoronata da dei fichi d’India che sono dei monumenti. E non mi fermo ancora. Lì davanti c’è un isolotto, tutto sabbia e fichi d’India, con una torre barocca. Chiedo a uno dei giovani che, come sempre, sono seduti sul muretto: “Mi puoi portare su quell’isola? Come si chiama?”. “Isola di Porto Palo!” mi fa, sconcertato, perché forse per lui l’isola non ha nome. Scende verso la barca, e remando lentamente attraversa il piccolo braccio di mare, reso turchino e rosa dalla luce morente. Sbarchiamo sull’isolotto, sotto la torre, e, già quasi nell’ombra tenerissima, odorosissima della notte, faccio il bagno nella più povera e lontana spiaggia d’Italia». O come la scoperta fatta con la compagna di viaggio Adriana Asti: «Ci incamminiamo per una stradina polverosa, lungo un campo di liquirizia che odora acutamente, ed ecco, seguito da una fila di ulivi, di carrubi, di fichi d’India, l’Anapo che sciacqua via verde, caldo, con la corrente zeppa di papiri. “I papiri, i papiri! – grida Adriana felice – Ci sono solo qui e in Egitto, te ne rendi conto?”. La sente un ragazzo, che passa di lì: e, no, non esagero, ha una faccia antica, veramente, non so bene se fenicia, alessandrina, o da scriba romano-meridionale, e quelle schiene con le spalle sporgenti come si vedono dipinte solo nei vasi. Questo ragazzo, senza dir niente corre giù per la riva verdissima dell’Anapo, e strappa tre lunghe canne di papiro, con la loro frangia verde e sottile sulla cima. Le dà a Adriana, che tutta felice le afferra, se le stringe in mano. Davvero le donano».

Quel medesimo stupore, noi siciliani in primis, dovremmo conservare per dare a questa terra la dignità che le compete. Perché, come il papiro, è rara e fragile. E solo occhi innamorati di verità, capaci di squarciare l’apparenza, sapranno essere all’altezza del compito. Occhi come quelli di Pasolini.

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