Un pittore e un poeta. Due facce della stessa medaglia, a ben pensarci. Sublimi interpreti della medesima abilità: incidere sui cuori affamati di bellezza; sottrarli all’apatia trascinandoli nella tempesta del sentimento; guarirli dalla solitudine connettendoli ai segreti del mondo. Uno con la rapidità e l’esplosività di una pennellata; l’altro con il suadente sospiro della parola. Un’affinità elettiva e necessaria: a rivelare, con la stessa disperata malinconia, le verità e le cicatrici della storia, i suoi vuoti e le sue colpe. Questo è stato il connubio tra Renato Guttuso e Pablo Neruda: un appello alla pietà e all’amore nell’infuriare di quelle meschinità umane che ancora oggi ci sconvolgono. Vissero, i due, quasi delle vite parallele, benché con uno svolgimento del tutto opposto: il siciliano conobbe durante la giovinezza le atrocità dell’Italia mussoliniana, alle quali si oppose attivamente attraverso le sue prime prove artistiche; il cileno nel 1973, in età piuttosto avanzata, ebbe giusto il tempo di assistere all’ascesa dittatoriale di Pinochet prima di perdere la vita appena una decina di giorni dopo. Nel mezzo, l’incontro che li avrebbe perennemente consacrati come compagni di lotta. E uniti spiritualmente alla stregua di due fratelli.

Nel 1956 Guttuso sposò la sua amata musa e compagna Mimise e per l’occasione Neruda non soltanto dedicò loro una poesia, ma partecipò perfino come testimone di nozze

La copertina del volume che raccoglie
le poesie di Neruda tradotto
da Quasimodo e illustrato da Guttuso

Già nel 1952 abbiamo notizia dell’accostamento dei loro nomi: nell’edizione delle Poesie di Neruda che la casa editrice Einaudi curò affidandone la traduzione alla altrettanto raffinata penna di Salvatore Quasimodo, il testo venne corredato dalle splendide illustrazioni di Guttuso, che evidentemente mostrava di sentirsi vicino a quella sensibilità così peculiare. Erano, d’altronde, anni decisamente prolifici per il pittore di Bagheria: se già nel 1938, con la discussa Fucilazione in campagna dedicata all’intellettuale spagnolo Federico García Lorca giustiziato dai franchisti, la sua fama aveva raggiunto un’importante diffusione essa arrivò al suo culmine grazie anche alla costante presenza alla Biennale di Venezia, dove espose consecutivamente tra il ’52 e il ’56. È piuttosto plausibile pensare che già attraverso queste circostanze i due avessero avuto modo di venire in contatto presso i circoli culturali europei più importanti dell’epoca e di stringere dunque un profondo legame d’amicizia. A conferma di questa tesi, un curioso e significativo episodio avvenuto proprio nel 1956: Guttuso sposò la sua amata musa e compagna Mimise e per l’occasione Neruda non soltanto dedicò loro una poesia, ma partecipò perfino come testimone di nozze.

Secondo la versione ufficiale diramata dal regime, Neruda avrebbe perso la vita a causa di un tumore, ma qualcuno sospettava un omicidio. Quel qualcuno era proprio Guttuso che nascose in una sua opera i nomi dei presunti assassini: Nixon, Frei, Pinochet

Tuttavia, se ciò non bastasse, per avere l’esatta dimensione della grandezza che caratterizzò il loro sodalizio bisognerebbe tornare al 1973, e proprio agli ultimi istanti di vita del poeta cileno. Sì, perché fin da subito la versione ufficiale diramata dal regime, secondo cui Neruda avrebbe perso la vita a causa di un tumore – dal quale pure era affetto – non convinse l’opinione pubblica sudamericana, e più in generale quella internazionale. Neruda, che già in passato non aveva lesinato impegno politico per la sua nazione, era stato minacciato di esilio. Troppo scomodo, per le ambizioni di Pinochet, quell’oppositore che nel 1969 era stato invitato dal partito socialista a candidarsi come Presidente della Repubblica; troppo ingombrante il dissenso di una figura così grande da ricevere il Premio Nobel per la Letteratura nel 1971. Soltanto recentemente il suo autista e la sua guardia del corpo hanno trovato il coraggio di testimoniare su come avessero assistito, nella clinica presso il quale era stato ricoverato, ad una misteriosa iniezione che ne avrebbe fatto aggravare rapidamente le condizioni. Ma qualcuno sospettava già l’omicidio. E quel qualcuno era proprio Guttuso. Che si affrettò a spedire all’amico un disegno realizzato su cartoncino, nel quale Neruda, la cui posa richiama il Marat dipinto da David, pur in fin di vita, stringe un’ultima volta con la mano destra la sua inseparabile penna, arma pacifica di liberazione e simbolo universale del rifiuto di ogni oppressione. Nella sinistra, un foglio recita una scritta eloquente: Nixon Frei Pinochet (che lo stesso Neruda aveva accusato nella sua ultima poesia, I satrapi). In calce al cartoncino – da cui poi è stata tratta un’incisione custodita a Santiago del Cile e descritta da Salvatore Settis in un articolo apparso su IlSole24Ore nel 2013 – un semplice ma commovente commiato: «A Pablo, Renato».

Vite e provenienze lontane, quelle di Guttuso e Neruda, eppure intrecciate da una concezione ribelle e passionale dell’arte, incrociatesi per volere di un destino che attraverso le loro esperienze desiderava mostrare agli uomini disposti ad ascoltare quanto sia fragile e tragica la nostra esistenza se lasciamo che a prendere il sopravvento sia l’ottusità o la brama di potere. Vite spese in trincea, restituite alla memoria collettiva dai chiaroscuri di una tela o dalla musicalità di un verso. Testimoni di lacrime e sangue ma anche dei loro provvidenziali antidoti. Che tramutano l’orrore in resistenza. E le tenebre della morte in luminosa speranza. Scriveva Neruda, d’altra parte: «Ma perché chiedo silenzio / non crediate che io muoia: mi accade tutto il contrario: / accade che sto per vivere».

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