«Quando un forestiero viene al Sud, piange due volte: quando arriva e quando parte». A rendere iconico e celebre questo aforisma, qualche anno fa, fu un film ormai appartenente alla cultura pop del nostro Paese: quel Benvenuti al Sud alla fine del quale uno dei due protagonisti, Mattia (interpretato da Alessandro Siani), consola Alberto (Claudio Bisio), in procinto di tornare a Milano al termine del suo incarico di lavoro e, contro ogni aspettativa e pregiudizi iniziali, follemente innamorato dell’ammaliante Meridione. Una scena certamente significativa e portatrice, oltretutto, di una verità esistenziale e storica di cui più volte è rimasta traccia negli scritti di diversi illustri personaggi. Come non pensare, ad esempio, agli elogi fatti da Pasolini nei confronti di Taormina e Siracusa? O all’esaltazione che pervase lo scrittore e giornalista ceco Karel Čapek dinanzi alle meraviglie di Palermo ed Agrigento? O all’affetto sconfinato di David Herbert Lawrence per Catania? Pochi sanno, tuttavia, che a questa schiera di eccellenti pellegrini appartiene un altro gigante della letteratura italiana, sopraffino, decadente e introverso cantore del trapasso tra l’Ottocento, secolo del progresso arrogantemente sbandierato, al Novecento, secolo di bombe e macerie. Il suo nome era Giovanni Pascoli e la sua permanenza a Messina, dal 1897-1898 al 1902, fu segnata da un vero e proprio colpo di fulmine.

Giunto in città insieme con la sorella Mariù per prendere servizio come professore di Letteratura Latina presso l’Università peloritana, infatti, si affrettò a scrivere: «Lo Stretto è bello – afferma rivolgendosi con una lettera a Ida, l’altra sorella – e l’aria è buona sebbene molto scirocchevole. Però umidità non ce n’è punta. Bella falce adunca (riferendosi al toponimo originario della città, Zancle, che in siculo indicava appunto la falce per la forma sinuosa del braccio sabbioso di San Ranieri, ndr), che taglia nell’azzurro il più bel porto del mondo, il bel monte Peloro verde di limoni e Glauco di fichidindia e l’Aspromonte che, agli occasi, si colora d’inesprimibili tinte». A colpire, di questo aneddoto riportato dallo stesso autore, non è la suggestione generata in lui dalle irresistibili bellezze messinesi, quanto, piuttosto, l’entusiasmo attraverso il quale queste vengono contemplate, l’apertura confessionale che un uomo estremamente, maniacalmente riservato e attaccato ai propri luoghi di origine, al proprio focolare domestico, mostra di trovare in “terra straniera”. Le ferite biografiche del poeta sembrano trovare insperato lenimento nei colori e nei profumi di Messina, nelle sue alture e nelle sue distese marine, nelle sue materiali testimonianze di una mitologia che si presentificava ai suoi occhi come compimento di un viaggio iniziato in giovinezza con lo studio delle lingue classiche. Una presenza quasi voluta dal destino, quella di Pascoli, compromessa sì, ad un certo punto, dall’aver contratto il tifo contestualmente a Mariù, eppure mai legata, nella sua memoria, ad istanti spiacevoli, ad amare considerazioni. «Io a Messina ci ho passato i cinque anni migliori, – scrisse nel 1910, sull’onda emotiva del terremoto avvenuto due anni prima – più operosi, più lieti, più raccolti, più raggianti di visioni, più sonanti d’armonie della mia vita. Tale potenza nascosta donde s’irradia la rovina e lo stritolio, ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è rimasta come l’orma nel cielo, come l’eco nel mare. Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia».

In Piazza Risorgimento 162, in corrispondenza dell’alloggio che il poeta occupò presso Palazzo Sturiale, campeggia oggi una grande lastra di marmo che commemora quegli anni. Lo stesso Palazzo Sturiale che scampò alla furia del sisma, giungendo intatto fino a noi come prova di un legame eterno, come testimonianza di un amore insopprimibile, come monumento di una delle rare fughe del poeta dal proprio nido. Una fuga che sa ancora di presente, che suona come ennesima e necessaria celebrazione di una terra (e di una città) che spesso dimentica la sua lirica singolarità, pur cullandone tra le braccia le stimmate indelebili.

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