Il mistero dell’arciduca triste: Borgese sulle tracce del rivoluzionario Rodolfo d’Asburgo
È sempre complesso parlare di destino. Descrivere i connotati della sua eventuale esistenza. Stabilire i confini della sua imperturbabilità o, di contro, della sua malleabilità. A volte, è una scure minacciosa che non lesina di fare le bizze nella vita degli uomini; altre volte è un cammino inatteso, il germogliare di possibilità inedite. Nel fato, questo è certo, credevano e si rispecchiavano i Greci. Perfino gli dèi – spesso digrignando i denti per il disappunto – si ritrovavano costretti a piegare il capo alla sua volubile volontà. Nemmeno agli eroi epici, rivestiti di fama in seguito al compimento di strabilianti imprese, era concesso deviare rispetto al sentiero tracciato dal Fato. Ma è qui, nel dipanarsi serrato e disperato di questa dicotomia, che l’epica divenne tragedia. Che l’accettazione divenne ribellione. Che la completezza divenne frammentazione dell’anima. È questo, in fondo, lo stigma dell’eroe tragico: rincorrere – vanamente? – la libertà da ogni genere d’imposizione. Confessare le proprie fragilità in un mondo che predica la forza ad ogni costo. Lasciare spazio all’individualità e all’intimità del proprio dramma. Sottrarsi a ciò che sembra già inesorabilmente scritto.
Su questi imprevisti, non di rado, la storia ha finito per reggersi. Più che sulle spade sguainate o sulle sollevazioni di piazza. Sulle gambe di personaggi che, anche al di là della loro consapevolezza, hanno dato alle rivoluzioni la forma di un colpo di piccone sulle consuetudini. Senza, per questo, allontanare da sé lo spettro della fine. Tra le tante figure che si potrebbero citare, in tal senso – dal classicissimo Seneca a Federico II di Svevia, da Jan Palach a Mandela – ce n’è una doppiamente interessante. La sua morte, infatti, ancora oggi custodisce dei misteri inestricabili. E uno dei migliori resoconti di ciò che gli accadde è opera di un illustre siciliano. Il riferimento è all’arciduca Rodolfo d’Asburgo Lorena, il principe triste, erede designato del trono d’Austria e figlio della celeberrima coppia imperiale formata da Francesco Giuseppe I e dalla moglie Sissi, che si tolse la vita a Mayerling, nel 1889, destando scandalo e stupore. Sulle tracce di questa controversa vicenda si mise il nostro Giuseppe Antonio Borgese, eccelso critico letterario – specialmente di area tedescofona – e giornalista. La sua inchiesta, dal titolo La tragedia di Mayerling, non è soltanto, tuttora, un fulgido esempio di analitica esposizione dei fatti, ma anche il frutto da cui, parallelamente, egli sviluppò il dramma teatrale L’arciduca (1924). Un viaggio raffinato ed empatico nel cuore e nella psiche di un personaggio a dir prismatico.
Del resto, Rodolfo fu sempre, a corte, un personaggio scomodo, schivo, imprevedibile. Cresciuto dal padre con metodi che la stessa Sissi contestò aspramente una volta scoperti – il piccolo principe veniva abbandonato per giorni in un bosco al buio e all’addiaccio, alla mercé delle bestie selvatiche, o svegliato di soprassalto nel cuore della notte da incappucciati armati di pistola che avrebbero dovuto aiutarlo ad affinare le proprie abilità di autodifesa – non disdegnò di disallinearsi, a volte in maniera radicale, dalle pretese di corte. Semplicemente perché, a conti fatti, la sua modernità era ancora, a tratti, inconcepibile. Non digerì mai, per esempio, lui che dell’amore aveva quasi una concezione libertina, l’imposizione del matrimonio con principessa Stefania del Belgio: un connubio infelice, per cui Rodolfo si crucciò a più riprese, dispiaciuto anche per il dolore inflitto alla compagna dall’indifferenza per una donna non amata. Né fu mai entusiasta dell’arcaico assolutismo propugnato dal padre. Eloquenti, in questo senso, furono le sue simpatie per la causa autonomista ungherese, che però non trovarono lo stesso favore presso Francesco Giuseppe. Che finì persino per affibbiare al figlio una costante sorveglianza. Una vita sventurata, insomma, quella di Rodolfo, che conobbe il suo culmine nell’incontro con la giovanissima baronessa Maria Vetsera. La passione li travolse, al punto che le cronache del tempo – lo stesso Borgese finisce per indulgere su questo aspetto – descrissero i sentimenti della donna quasi come una devozione mistica. L’ennesimo sgarbo al padre, che a più riprese intimò all’arciduca di troncare la relazione. Fu l’ultimo attentato alla sua libertà. Il 30 gennaio 1889, in quelli che poi sarebbero passati alla storia come “I fatti di Mayerling”, i due amanti vennero trovati senza vita in seguito a dei colpi di pistola. La dinamica fu presto accertata: Rodolfo, che fino all’ultimo aveva tentato di dissuadere l’amante dal seguirlo in quel drammatico proposito, secondo alcuni ammalato di gonorrea ed impossibilitato ad avere figli che potessero garantire la sua discendenza, amareggiato per la mancata approvazione di un padre tanto amato e tanto detestato, aveva fatto fuoco su Maria, prima di rivolgere l’arma alla propria tempia. Come Tristano e Isotta, opera che Rodolfo amava particolarmente, i due amanti condivisero la morte. E l’eco di quel dramma si riverberò su tutta Europa. Negli anni ’20, da un caveau di una banca viennese, emersero delle missive poi confermate come autentiche. «Sei liberata della mia presenza, che è una vera piaga per te» scrisse l’arciduca. «Cara mamma, perdonatemi per ciò che ho fatto, non potevo resistere all’amore. D’accordo con lui, vorrei essere seppellita vicino a Lui nel cimitero di Allad. Sono più felice nella morte che in vita» furono invece le ultime parole della baronessina. Chissà che non siano state queste a solleticare l’ingegno di Borgese.
Il quale, nella parte finale del suo dramma, ripercorre con una vena di pietà anche l’ultimo, vergognoso affronto perpetrato dalla famiglia imperiale. Il corpo delle Vetsera venne prelevato di nascosto e seppellito lontano dall’amato, senza che nessuno potesse dargli l’ultimo saluto. Quanto a Rodolfo, sebbene in un primo tempo la famiglia avesse tentato di depistare ‘opinione pubblica giustificando quella morte imbarazzante con un infarto, la versione del suicidio venne a galla. Ma fu giustificata con una sopravvenuta pazzia. In virtù di questo, il Papa concesse eccezionalmente la sepoltura presso la cripta imperiale, a Vienna, nonostante il peccato di suicidio. Ma Rodolfo folle non lo era affatto. Era solo stato fin dopo la sua morte, una scheggia impazzita. Una pedina scesa dalla scacchiera. Al suo posto, al trono d’Austria sarebbe asceso Francesco Ferdinando. L’uomo dalla cui morte scaturì la Prima guerra mondiale. Perché la storia e il destino sono così. Forse immutabili. Forse il risultato di una deviazione inaspettata.